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La chiesa monumentale della Madonna delle Lagrime

5     I DONI E LE ELEMOSINE

 

 

(Tommaso Valenti, La chiesa monumentale della Madonna delle Lagrime, Roma, Desclée, 1928 - pagg. da 31 a 40)

[ I numeri in grassetto  tra parentesi acute <  > indicano le pagine del volume originale. Le parole divise a fine pagina sono trascritte interamente nella pagina in cui iniziano]

Il testo in caratteri color marrone è stato aggiunto all'atto della presente trascrizione.

 

 

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I fedeli che numerosi accorrevano alla cappella, poi alla chiesa delle «Lagrime» noti giungevano a mani vuote. E fino dai primi giorni fu una gara di generosità, nell'offrire donativi e denari, che ci dà un'altra prova della grande fiducia che il popolo angustiato nutriva in questa nuova protettrice, che credette inviata dal cielo.

Anche di questo particolare abbiamo documenti tali e tanti, che ci permettono di farci un'idea esatta della quantità e della qualità dei doni offerti alla Madonna delle Lagrime. Nel Codice 155 dell'Archivio «delle 3 chiavi» sono enumerati —  a cominciare dal 30 Settembre 1485 —  gli oggetti regalati alla imagine. Sarebbe interessante trascrivere qui per intero questi elenchi delle offerte; ma, per ragioni di praticità, debbo limitarmi a riassumere le notizie in essi contenute, salvo a dare in Appendice un saggio di essi (1).

I doni, sul principio, erano conservati in una cassa di noce, e in una, cassa «veneziana», cioè decorata esternamente con rilievi di pastiglia. In un altro cassone erano gli oggetti destinati alla vendita. Nella cappella era depositata la cera e tutto ciò che poteva servire d'ornamento all'altare.

La maggior parte dei doni consisteva in stoffe ed oggetti di biancheria. Troviamo — per esempio — un pallio d'altare di setanina

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(1) Vedi: Appendice. Documento N. 1


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bianca, con fregio d'oro. Un altro rosso con le armi del comune di Castelritaldi, che l'aveva donato. Poi 228 pezzi tra tovaglie e tovaglioli «dozzinali»; 35 pezzi di stoffa di seta. Ingenuamente grazioso il dono di una piccola cappa e mantellina di seta, con ornamenti d'argento, e quello di una cuffia di lino «per il Bambino».

La povertà della maggior parte dei fedeli non permetteva ad essi di fare regali di valore. Ognuno dava quel che poteva. E tutto si accettava, anche oggetti di uso personale, conte fazzoletti (mucichili), camicie da uomo e da donna, lenzuola, tessuti di cotone, ecc:.

Nella cappella era molta cera. Doppieri grandi «molto honorevoli» ed altri mezzani e piccoli «de omni sorte appesi in cappella»; compresi «doi poco menori facti a Trevi». Avevano. dunque, allora a Trevi una fabbrica di cera, e documenti posteriori ci dicono che era lo speziale (aromatarius) Tarquinio Petroni che di quei tempi lavorava le candele.

 

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Come ho accennato nel capitolo precedente, molte stoffe di seta e di broccato ornavano l'altare e le pareti della cappella. Intorno alla imagine erano appesi gli oggetti preziosi; ma questi — a dir la verità — non erano molti. Troviamo soltanto 5 paia di occhiali di argento, due corone, pure di argento, di cui una «inaurata» sopra al capo della sacra Imagine, dono di Donna Marchisina Lucarini, moglie di Natimbene Valenti. Poi una collana di argento e un'altra più piccola; e tre grossi pezzi di coralli. Molte tovaglie ù malfectane» e e marchisciane», con bordi dorati; veli di seta bellissimi e lavorati; altri di bambace artisticamente disposti dinanzi, di sopra e daccanto alla imagine, drappeggiati con cordoni e frangio.

Infilati in una cordicella, pendevano dinanzi alla Madonna 173 anelli, ai quali in seguito se ne aggiunsero altri.

 

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Non mancavano i prodotti locali e gli oggetti di uso domestico, come una brocca grande ed una più piccola piene d'olio; una «salma» di grano; una tina della capacità di 5 «salme» (ettolitri, circa) una «secchiarella de lignamine» e un piattello di maiolica.

Questi furono i doni offerti nei primissimi giorni, cioè dal 5 Agosto al 30 Settembre 1485. Ma, come è naturale, continuarono a giungerne anche in seguito, per quanto l'affluenza ne venisse, mano, mano, scemando. Troviamo così notati al 10 Ottobre di quell'anno stesso altri 28 anelli di argento e ceri e biancheria. Al 25 Ottobre:
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64 asciugatoi, 7 anelli di argento ed altra biancheria. Il 14 Novembre, oltre ai soliti oggetti di stoffa e ad altri 8 anelli, ci sono 8 «libbre» di mandorle.

Più tardi — 1° Febbraio 1486 — vennero rottàmi di metallo, 53 «libbre», circa, ed un piattello e quattro scodelle di stagno. Oltre alla biancheria., c'è un calice dorato, con la sua patena, offerto dal comune di Trevi, come da deliberazione consiliare del 16 Ottobre 1485, per implorare dalla Madonna la liberazione dalla peste che allora infieriva. La spesa per il calice fu di 30 «fiorini»; somma considerevole, per quei tempi.

I1 comune regalò anche una pianeta di lana rossa con figure e fregi bellissimi. Altri devoti offrirono càmici, amitti e simili arredi sacri.

 

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Dal 1° Marzo al 16 Giugno 1486 non restano altre memorie di doni. Ma sotto quella data sono annotati 192 pezzi tra tovaglie, asciugatoi, fazzoletti, ecc.

Il 6 Luglio è memoria di 210 oggetti di biancheria. I1 3 Maggio 1487 il consiglio comunale delibera offrire alla Madonna tre tovaglie «malfectane».

Da, quel giorno, fino al 3 Settembre 1488 non trovo altri elenchi di regali, dei quali, forse, non si teneva più il registro giornaliero. Però in quell'epoca si fece un inventario dei dotti allora esistenti; ed in esso figurano 19 «brocche» di olio, 590 pezzi di «panni» (tessuti per biancheria) molti oggetti di uso personale (una berretta, un paio di maniche, alcune camicie, uno stivale «tristo et rocco», etc:) più 4 camici e 5 piacete, con molti altri oggetti minuti.

Il 24 Gennaio 1489 è memoria, della consegna fatta al depositario di panni «et altre robe». Tra le altre cose troviamo «uno poco de zafferano». Piccola notizia, questa: ma che, confermata da altri documenti. serve a farci sapere che allora questa pianta era coltivata nel nostro territorio, come in quelli di altri comuni vicini, tanto elle ispirava a Pierfraneesco Giùstolo, il famoso umanista di Spoleto l'elegante poemetto latino stilla coltivazione dello zafferano (l).

Vedremo in seguito come fosse organizzata la custodia di tutti questi doni, per parte del comune.

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(1) Petri Francisci Justoli. Opere, Spoleto, Bossi e Bassoni, 1855. De Croci cultu, pag.54.

 


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Il Mugnoni nei suoi «Annali» ha conservata memoria di altri oggetti di valore presentati all'imagine. Tra gli altri quello della .città di Spoleto, cui poco fa accennavo. Di più ci fa sapere che il comune di Campello sul Clitunno il 4 Settembre 1485 fece portare alle «Lagrime» una grandissima pietra per l'altare. Ci vollero — esso narra — tre giorni e più di cento uomini per portarla giù dalla Spina, località montana di quel comune, con grave pericolo delle persone; ma non accadde nulla di sinistro.

Circostanza notevole: questa pietra — oltre all'immagine della Madonna — è 1'unico avanzo che si conservi della primitiva cappella qui costruita. La pietra dell'altare resta ancora dinanzi all'imagine; e più oltre tornerò a darne notizia più esatta. [

I1 12 Decembre di quell'anno venne offerta dal comune di Montesanto — ora frazione del comune di Sellano — «una digna corona» che fu portata processionalmente, per la grazia ricevuta di essere stato quel popolo salvato dalla peste.

Un'altra corona fu nell'Ottobre offerta, per la stessa ragione, dal comune di Cannara. E le donne di Trevi fecero fare la corona per il bambino.

Il 5 Febbraio 1487 passò da Trevi il concittadino Nicolò di Giacomo Bartolucci, capo squadra di Roberto di Sanseverino, il quale moveva contro il re di Napoli, per conto della repubblica di Venezia. Enel passare da Trevi — è il Mugnoni che lo racconta — lasciò il Bartolucci in consegna a Natimbene Valenti un reliquiario con una spina «de quella grillanda de spine fo poste ad Jesu Christo nostro redentore».

La reliquia — che secondo anche un foglio di memorie conservate nel nostro archivio — era racchiusa «in un tabernacolo di cristallo», fu portata processionalmente alla chiesa delle «Lagrime» il 5 (o il 9) Aprile 1486. «Se bene oggi — scrive l'anonimo redattore del foglio — credo non vi sia più, per negligenza» (1). Il documento porta la data del 1629.

Degli oggetti dati in dono alla Madonna, molti, non utilizzabili per il culto, furono venduti. E del ricavo è tenuta memoria in un registro speciale (2). Risulta da questo che furono venduti piatti e

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(1) Archivio delle 3 chiavi — N. 214.

(2) Ivi. N. 215.


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scodelle di stagno a 4 «bolognini» e mezzo la «libbra». E il bolognino» era poco più di un «soldo» dei nostri.

Molti altri oggetti furono ugualmente alienati; cioè: biancheria, olio, zafferano, candele e torcie.

Le pianete ed altri arredi sacri furono consegnati a Gio: Gabino Francioli, uno degli incaricati della custodia dei doni, perchè li portasse a benedire a Foligno.

Tra i doni offerti erano anche tre cinture d'argento, due tazze pure d'argento e 82 aneletti d'oro, i quali furono venduti ad un tal Cesare, orefice di Foligno, che pagò l'argento 30 «bolognini» l'oncia, e l'oro 1 «fiorino» e 8 «bolognini», presso a poco 3 lire delle nostre.

 

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Il 13 giugno 1486 — dice il Mugnoni — il piovano di Matelica, nelle Marche, a nome D. Pietro Paolo, insieme a più religiosi ed oltre 20 cittadini vennero a Trevi e portarono «una digna corona» alla Madonna. Questa comitiva di forestieri fu accompagnata dalla porta di Trevi — che forse fu quella «deI Lago», ora distrutta — fino alla cappella delle «Lagrime» dai signori priori del comune, con una solenne processione di molta gente.

Fu celebrata una messa; «e cantata una digna laude de la Vergine Maria con voce soave et dolce et amène et con molte làgremene et devotione». E ciò perchè a Matelica c'era stata grande peste quell'anno: ed avendo il popolo fatto voto alla Madonna delle Lagrime il flagello cessò subito quasi del tutto (1).

Anche da Bevagna vennero rappresentanti del comune a portare una «mezza corona» e «un doppiero de peso più de XII libbre, longo più de uno paso et mezo» in riconoscenza della fine della peste.

Oltre a tutti questi doni affluirono anche offerte in denaro e se ne trova speciale menzione in un frammento di libro di amministrazione, che si riferisce però a tempi alquanto posteriori, cioè agli anni dal 1495 al 1501 (2).

Con tutto ciò da questo documento possiamo desumere che per

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(1) La venuta di questi devoti a Trevi da una città relativamente lontana come Matelica, (circa 100 chilometri) è da mettere in relazione col fatto che il Mugnoni — autore degli a Annali» — era stato cancelliere di quel comune dal 12 Giugno 1480 al 1482. Niente di più probabile che egli abbia consigliato ai suoi amici afflitti dalla peste, di ricorrere alla nuova miracolosa imagine.

(2)  Archivio delle 3 chiavi -N. 230


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raccogliere le elemosine dei fedeli erano collocati nella cappella della Madonna: una cassetta per le offerte in genere, una cassa per quelle destinate all'acquisto della cera ed un «ceppo» (1) che forse fu per le elemosine promiscue.

Per avere un'idea di ciò che si ricavava da tutte queste offerte, dirò — per esempio — che dal 25 Aprile al 15 Decembre 1496 il «camerlengo» e «depositario» dei denari, Giovanni Antoniuzzi, raccolse in tutto 596 «fiorini» e 10 «bolognini». La somma, per quei tempi, era rilevantissima; basterà metterla in relazione con i prezzi che si pagavano per i lavori di costruzione della chiesa, dei quali parlerò in seguito.

Per la storia della moneta, è notevole il fatto che spesso si trovavano, tra le elemosine, monete false in discreta quantità. Il «depositario» le metteva in una «saccùta» a parte, e le consegnava, così com'erano, al suo successore. Ma venivano crescendo man, mano; tanto che il 29 Gennaio 1497 il «depositario» Benedetto di Ser Battista Contucci — ne ricevette in consegna una «sàccola» che pesava 48 «libbre».

É utile ricordare qui che la fabbricazione delle monete false era uno dei delitti più severamente puniti, fino da tempi antichissimi. A Bologna — per esempio — nel secolo XIII, i falsari erano condannati ad essere bolliti vivi in una caldaia; oppure ad ingoiare liquefatto il metallo delle monete che avevano falsificate (2). Il delitto di falso — sia in monete, che in documenti — era equiparato a quello di lesa maestà (3). I falsari erano considerati al pari degli incendiarii e degli assassini e simili delinquenti; con quelle conseguenze penali che è facile imaginare.

Con tutto ciò la piaga si estese. E Giulio II con breve del 20

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(1) L'uso del «ceppo» (latino: cippus; francese: tronc) per riporre denaro è antichissimo. Si trova questo vocabolo in tale senso nello Statuto bolognese del 1250-67 (To; III., pag. 399) Un breve di Bonifazio VIII del 1302 ordina ai canonici della cattedrale di Fermo di porre nella, chiesa, un «cippus seu truncus ubi eleentosine ponantur». (Reg: vat: 50. f: 159. in Archivio segreto pontificio). Così Eugenio IV (6 Maggio 1142) ordina altrettanto per la chiesa di S. Maria di Eton, della diocesi di Langres: «unum truncum cum duabus clavibus». (Reg: vat. 360, f: 159 - ivi). Il Du Cange ha questo vocabolo nel suo Lexicon mediae et infimae latinitatis (Ed: Niort.  Fav're, 1884) contrariamente a quanto afferma Gino Luzzatto in  Gli statuti di S. Anatolia, in Alti e documenti della R. Deputazione di storia patria per le Marche, 1899.

(2) L. Frati  La vita. privata a Rologna - ivi, Zanichelli, 1900, pag 86.

(3) Breve di Martino V a Rodolfo ed altri Varano, del 22 Aprile 1118, in Archivio segreto pontificio - Reg. Vat. 348, f: 66 ss.


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Agosto 1507 mandò commissario straordinario a Trevi — come in tutte le altre terre della chiesa — il cavaliere Angelo Romulei, cittadino romano, con pieni poteri contro i falsificatori e contro gli spenditori di monete false; «i quali — dice il breve — devono considerarsi nemici del genere umano, «non meno dei pirati» (1). E, per non parlare di altri documenti, ricorderò solo che tardi Clemente VII dava ordine a Bernardino della Barba, governatore di Ancona, di agire contro i molti falsari, che erano colà — fossero chierici, laici, cristiani od ebrei — e, catturatili, torturarli, condannarli alla morte ed alla confisca dei beni, secondo il diritto comune (2).

E quando i papi assolvevano qualcuno da delitti in genere, facevano quasi sempre eccezione per quello della, falsificazione di monete; segno questo che lo ritenevano del tutto imperdonabile; tanto che Giulio II nel breve che sopra ho ricordato lo definiva «disonorevole per la maestà pontificia e degli altri prìncipi e di gran danno ai popoli».

Ho voluto accennare a tutto ciò per concludere a quali imprevidibili inconvenienti andassero incontro quei buoni cittadini che si occupavano degli interessi della nascente chiesa, e quale seria minaccia rappresentasse per loro il ritrovarsi tra mani quella pericolosissima merce! Tanto vero che, appena riconosciuta la falsità delle monete, queste venivano ritirate dalla circolazione, e racchiuse in un sacchetto — sàccula — che gl'incaricati della custodia delle elemosine consegnavano al loro successore, facendola sigillare col sigillo del comune, dopo accertato il peso delle monete insacculate.

Ma, oltre a questo, un'altra difficoltà sorgeva nella raccolta delle elemosine. E derivava dalla grandissima varietà di monete allora in corso nelle diverse regioni d'Italia.

Una volta fu trovato tra le offerte «uno ducato fiorentino, quale è «tenuto falso». Ciò vuol dire che il «depositario» non sapeva pronunciarsi sulla bontà o meno delle monete che gli capitavano, così diverse di conio, di valore e di lega. All'epoca di cui mi occupo, erano in corso, ossia si spendevano più comunemente a Trevi, oltre a quelle papali, le monete venete, ungheresi, bolognesi e fiorentine (3).

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(1) Archivio delle 3 chiavi . N. 280. f: 102.

(2) Breve 19 Gennaio 1534, in Archivio segreto pontificio — Arm. XI, To: 18 N. 81.

(3) Archivio notarile Trevi — To: 71 — Rogiti di Francesco quondam Pietro — f: 52.



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Un'offerta in moneta fiorentina fu fatta nell'Ottobre 1497 da A—seanio Ottoni, signore di Matelica, che lasciò alle «Lagrime» 30 «ducati» di quella moneta. «Et questi ducati sono pegio — nota il «depositario» Bartolomeo Lucarini — «et uno (prima di tutto) che non sono di peso». Infatti, ragguagliati a «ducati papali leggeri», Si ridussero a 22 di questi.

 

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Ai denari provenienti dalle elemosine erano da aggiungersi quelli ricavati dalla vendita di oggetti offerti in dono e quelli provenienti da legati testamentari. Sino dai primi tempi della nostra chiesa, anche avanti che se ne incominciasse la costruzione e per lunghissimo volgere di anni, quasi ogni trevano che faceva testamento lasciava una somma più o meno grande per la fabbrica, o per «l'opera» della Madonna delle Lagrime. Il primo lascito che ho trovato è del 2 Settembre 1485, cioè a ventisei giorni di distanza dal miracolo. È un tal Marino di Angelo Lenzi, del piano di Trevi che lascia 25 «fiorini a per la cappella della Madonna, affinché questa protegga contro la peste il testatore e la sua famiglia (1).

Di tali legati è così grande il numero, che, per farne un elenco completo, occorrerebbe spogliare tutto l'archivio notarile dal 1485 fino alla metà del '600, almeno. D'allora i legati cominciarono a diminuire. Contentiamoci soltanto di rilevare questa disposizione d'animo dei testatori trevani, i quali, d'altra parte, facevano simili lasciti anche alle altre chiese di Trevi, come a S. Emiliano. S. Francesco, S. Martino, e S. Maria «di Pietra rossa» alle quali allora si lavorava.

Elemosine abbondanti si raccoglievano nelle ricorrenze delle fiere e delle feste. E qualche memoria di tali offerte troviamo nei libri di amministrazione di epoca posteriore al 1500; ed avrò occasione di parlarne più avanti.

Da quanto ho esposto fin qui, risulta chiaro a quali fonti si attingesse per le prime spese di culto per la nuova cappella e per la

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(1) Archivio notarile Trevi — To 139. Rogiti di Guidantonio di Ser Bartolo — f. 54. Vale la pena di riportare un saggio di questo documento. I1 testatore raccomanda l'anima sua «altissimo creatori et gloriose Virginis Marie lacrime eis, ubi est ad presens capella apud suctus Costarella, in domo Tetaléo Auloni Santini de Trevio, ubi est ad presens de fienda dictam capellam ad honorem Sancte Marie lacrimis», etc. Lascia «pro auxilio et adiutorio vuto (!) sopra ditta capella faenda florenos 25 pro anima ipsius testatoris, quani ipse Virginiis Marie rogat onnipotenti Deo quod ipse testator. st fanilia sua defendat de peste». Il tutto è qui riprodotto testualmente!

 


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costruzione della chiesa, in seguito. Ma la semplice elencazione dei doni e delle elemosine sarebbe di per sé troppo arida e povera cosa, e potrebbe sembrare inutile il trattenervisi a lungo, se non assumesse uno speciale valore documentario, in quanto che da questi dati ci è lecito fare ragionate deduzioni sulle condizioni economiche nelle quali di quei tempi vivevano il comune ed i cittadini tutti.

Osserviamo, infatti, che non trovansi tra i doni, offerte di grande valore. È il numero che fa impressione, poichè ci dimostra che ognuno, si può dire, volle dare una prova tangibile della sua devozione: dal comune che offre calici e pianete, dalla gentildonna che dona una corona d'argento dorato; dall'agricoltore che presenta olio e zafferano, al povero mendicante che dà quello che ha: «uno stivale tristo et rocto», dalla benestante che regala stoffe di seta, alla modesta donnetta del popolo che da «uno jomo (gomitolo) d'accia»!

Ma — nell'insieme — non abbiamo donativi vistosi: non pietre preziose, non monili. Un certo numero di anelli d'argento; pochi d'oro.

Tutto ciò si deve spiegare col fatto che a Trevi non erano allora famiglie che potessero dirsi ricche. Ne fa fede il Mugnoni che nella sua cronaca c'informa — sotto la data del 1488 — che solo da pochi anni le condizioni economiche di Trevi erano migliorate. Sino a qualche anno prima, a Trevi c'era un solo bottegaio. Appena tre o quattro persone avevano in casa piatti e scodelle di stagno, oggetti di lusso per quei tempi; e quel tale unico bottegaio — Bernardino di Nicolò — teneva un piccolo deposito di stoviglie di legno, che dava a nolo a chi facesse le nozze.

Non industrie, non commercio a Trevi. L'agricoltura appena allora incominciava a risorgere, per l'avvenuta parziale bonificazione dei terreni del piano — non ancora completata a tutt'oggi! — e per le nuove piantagioni di viti e di olivi.

Ma il benessere economico dei trevani era all'inizio o quasi. Quindi le offerte fatte alla Madonna delle Lagrime erano in proporzione dell'agiatezza dei feddeli. Che se questi all'epoca del «miracolo» delle lagrime avessero raggiunto quel grado di ricchezza al quale pervennero nel secolo seguente — onde fu necessario persino emanare speciali disposizioni per infrenare il lusso dei trevani — ben diversi sarebbero stati i doni recati alla Madonna.

Ma, per la verità, devo anche aggiungere che, passato il fervore dei primi tempi, la pietà dei fedeli si raffreddò e sempre meno abbondanti divennero le elemosine ed i regali.

 


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Oltre alle elemosine, altro cespite d'entrata per la nuova chiesa erano le penalità pecuniarie che venivano applicate ai rei di qualche delitto o di qualche contravenzione alle disposizioni statutarie, o disobbedienza agli ordini delle autorità.

Per esempio: in data 15 Ottobre 1487 un rescritto del vescovo di Viterbo, luogotenente del cardinale legato di Perugia, applica alla fabbrica della chiesa delle «Lagrime» le multe da infliggersi a chi bestemmiasse Dio od i santi; a chi facesse ingiuria al podestà od ai priori; a che disobbedisse alla curia; a chi si trovasse già iscritto nel «libro rosso dei malefìci» dove si segnavano i nomi di coloro che erano debitori al comune per qualche multa non ancora pagata, o perchè non avevano ancora soddisfatto a qualche fideiussione prestata per altri (1).

Così un Battista de Tirannozzo, da S. Giovanni, paga alle «Lagrime» due «fiorini» per la quota spettante alla chiesa di una multa a lui inflitta per la pena «de la carne non fatta in lo macello» (2).

Nei giorni di festa non era permesso neanche di mietere. Per essere autorizzati occorreva pagare una certa somma. E la chiesa nostra ebbe una volta «da quilli che pagarono per haver licentia de mèter lu dì de San Pietro, fiorini duj et bolognini 28» (3).

Nelle «Riformanze» del comune e nei decreti delle autorità superiori simili esempi si ripetono assai di frequente; ed è a credere che il gettito di queste entrate fosse assai notevole, visto il sistema allora in uso di applicare pene pecuniarie anche per delitti gravissimi.

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(1) Archivio delle 3 chiavi -N. 155 -f: 8t.

(2) ivi, N. 165 - f. 18 - 29 Luglio 1499

(3) ivi, N. 165 - f. 2. - 18 Agosto 1495.

 

 

(Tommaso Valenti, La chiesa monumentale della Madonna delle Lagrime, Roma, Desclée, 1928 pagg. da 31 a 40)

 

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