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Memorie di un filodrammatico - 4
Il nuovo assetto della filodrammatica
 e la bufera della guerra

(Augusto Bartolini, Memorie di un filodrammatico, Assisi, Porziuncola, 1971)

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<42 seg.>Ancora un biennio d'intervallo e poi un atto di coraggio con la messa in scena di un lavoro di Pirandello: “Ma non è una cosa seria”. Avevo già presentato di Pirandello, come si ricorderà, l'atto unico “La Patente”, ma desideravo affrontare un lavoro completo del grande siciliano. Molte difficoltà mi si opponevano. Anzitutto la maggior parte dei suoi lavori teatrali sarebbe riuscita ostica per il nostro pubblico di provincia, che certo non avrebbe accettato volentieri il problema centrale e le disquisizioni troppo cerebrali dei suoi personaggi. Inoltre certe situazioni un po' scabrose potevano trovare difficoltà

<43>di esecuzione da parte delle signore e signorine dilettanti (di allora!) per le quali era doveroso da parte mia un certo riguardo, anche in considerazione delle ripercussioni che potevano determinarsi nelle loro famiglie.

Ma la commedia prescelta, anche se fondata su di una situazione paradossale, si discostava un poco dalla altre per una minore cerebralità e tortuosità dei suoi personaggi, e presentava elementi che mi pareva che dovessero essere compresi e piacere al nostro pubblico. E così infatti avvenne.

É basata, come ho detto, su di una situazione paradossale, quella di un giovane che, facile all'estremo ad innamorarsi e compromettersi con le donne, decide, per salvarsi dal prender moglie incautamente, di sposare una ragazza senz'attrattive, precocemente invecchiata, sfiorita nell'ambiente squallido di una pensione di terz'ordine. Ma si trova poi pentito e imprigionato nel suo stesso intrigo, innamorato ancora una volta pazzamente di un'altra donna, smanioso e furioso contro la moglie presa per ischerzo, ma che lo tiene legalmente vincolato. Quando sembra che non ci sia una via di uscita, ecco finalmente la sorpresa di ritrovare la moglie nella sua villetta di campagna dove l'ha lasciata parecchio tempo, rifiorita, ringiovanita e addirittura abbellita dal suo contatto con la natura e con i fiorì, ecco l'accorgersi che andava cercando lontano quello che aveva a portata di mano, e quindi la felice conclusione della vicenda, cioè la trasformazione di quel matrimonio per ischerzo in una cosa seria.

La scelta delle parti per i non pochi personaggi della commedia anche questa volta fu felice. Nella parte di Memmo Speranza, il protagonista, mi sembrò di essere nei miei momenti migliori, specie nel secondo atto <44>quando l'esasperato personaggio si dibatte prigioniero di quella aggrovigliata situazione da lui stesso provocata; la protagonista fu la giovane Teresina Giovannini, che dimostrò versatilità e freschezza ingenua nel passaggio da quell'essere compreso e avvilito del primo atto fino alla trasformazione gioiosa dell'ultimo atto. Tutti i vari tipi della commedia, dal collerico Grizzoffi (Paolo Onori), all'indimenticabile Luigi Cecchini nella parte di un professore di Liceo femminile, poi colpito da paralisi, resa da attore professionista, agli altri frequentatori della pensione (Carelli, Zenobi, Sebastiani), alle altre donne, fra cui due donnine allegre (mia moglie debuttante e la Falasca Italia) si fecero onore e si uniformarono all'andamento del dialogo da me voluto serrato e scorrevole, al ritmo piuttosto eccitato delle scene, in un clima di particolare tensione. Insomma un lavoro da collocare fra le quattro o cinque migliori realizzazioni di tutto il nostro repertorio.

Il 15 settembre del seguente anno 1935 trovo registrata la rappresentazione di "Cicero", una commedia di Luigi Banchi che ha per protagonista uno strano tipo di avvocato esuberante e chiacchierone che mentre vivacchia tra le causette civili, sogna di arrivare alla grande causa penale e di indossare la toga in una corte di Assise come difensore di un grande delinquente. Ad un certo punto alcune incerte confessioni di un suo cliente gli fanno credere di averla trovata. Si tratta invece di un grosso qui pro quo che lo accompagna per tre atti con una serie di scene una più incredibile dell'altra fino a portarlo alla convinzione di essere lui stesso l'autore del delitto commesso in stato di ubbriachezza, ultimo equivoco che viene alla fine chiarito insieme agli altri, riportandosi il protagonista a quella meschina realtà da cui <45>rinuncia ormai per sempre ad evadere. Per quanto facessi del mio meglio non ricordo questa parte come una di quelle che mi lasciassero veramente soddisfatto. Lo fui invece per l'interpretazione di Luigi Cecchini il quale, aderente alla regia, delineò molto bene la figura del presunto omicida, un povero uomo, dominato dalla moglie e dalla suocera, che, messo in un piano non suo dal fantasioso avvocato, non riesce che a procurarsi una quantità di guai in famiglia e fuori. La signora Bartolini e la Signorina Merli furono aggressive e convincenti nelle rispettive parti della moglie e della suocera. Gli altri dilettanti, Marcelloni, Bonaca, Carelli e Gentilucci diedero abbastanza rilievo alle loro figure e quindi nel complesso la rappresentazione raggiunse il suo scopo, quello cioè di divertire il pubblico in modo intelligente.

Si sarà già notato, e lo sarà più in appresso che nella scelta dei lavori da rappresentare venivano da me preferite le commedie ai drammi. Questo indirizzo, che del resto non faceva che seguire una tradizione recente, era da me seguito per ragioni personali e di opportunità. Le prime si basavano sul fatto che, per la mia particolare sensibilità, le parti drammatiche avrebbero portato con sé della sofferenza, e le seconde nel fatto che nelle prove normalmente effettuate con impegno a chiusura di una giornata di lavoro, sarebbe mancato quel senso di relaxe, incompatibili con un lavoro serio. Inoltre la maggior parte dei nostri dilettanti era più portata e adatta per figure e per mezzi alle parti caratteristiche e comiche, ad eccezione forse del solo Paolo Onori. Ed infine il pubblico, del quale bisognava tener conto, mostrava di gradire di più le commedie comiche e sentimentali che non i drammi, verso i quali si mostrava critico più severo. E bisognava anche tener presente il rischio che si correva <46>ad ogni recita di qualche papera o amnesia o errore da parte di qualche dilettante in preda al nervosismo della prima rappresentazione. In un dramma sarebbe bastato per rovinare una scena, mentre invece si sarebbe potuto facilmente rimediare con una battuta di spirito in una scena basata sulla comicità.

Malgrado queste considerazioni, nell'inverno seguente (1936) misi in scena un dramma giallo: “Il Trattato scomparso” di Galare e Artù. Un dramma giallo però è di natura speciale, diverso da un normale dramma. Ha una macchinosità sua propria, c'è un mistero che circonda il delitto che fa da sfondo alla vicenda, e tutto ciò tiene in sospeso lo spettatore, e generalmente gli è gradito. Naturalmente bisogna raccomandare il segreto a tutti i partecipanti alla recita, perché altrimenti mancherebbe uno degli elementi più interessanti per il successo. Il trattato scomparso è basato sul furto di un documento segreto della massima importanza da parte del servizio di spionaggio di una potenza straniera e coinvolge tutta la famiglia di un alto Ufficiale della Marina da guerra, che insieme al suo Aiutante ha siglato il documento e lo conserva presso di sé. Ci scappa naturalmente il morto ed è proprio il figlio di quell'alto ufficiale che sembra si sia suicidato sotto il peso di gravi sospetti di tradimento. Ma sta all'immancabile detective lo scoprire con una serrata indagine che invece di suicidio si tratta di omicidio da parte del vero ladro che è un agente del servizio segreto straniero, e che si nasconde sotto la veste di un insignificante cameriere. Molte e importanti le parti da assegnare. A me riservai la parte dell'alto ufficiale, l'ammiraglio Moestan, figura nobile e dignitosa, colpito duramente nei suoi affetti di Padre, nel suo onore di soldato, nel suo amore per una donna che si rivelerà come una <47>avventuriera dal fosco passato. Il detective John Brown fu Raimondo Carelli che ebbe una certa incisività nel marcare il personaggio, non guastando troppo questa volta la lentezza della sua dizione, dovuta alla sua solita trascuratezza nell'imparare bene la parte. Vivace risalto diede alla figura di una anziana zitella Armanda Arredi, nome non nuovo nella storia della Filodrammatica, fornita di una voce e temperamento particolarmente adatti per le parti femminili di carattere comico. Un nuovo e buon acquisto fu il giovane Marino Gentilucci, da non molto trasferitosi a Trevi con la sua famiglia, a cui assegnai la parte del giovane figlio dell'Ammiraglio Morstan coinvolto in un dramma di amore e di disperazione per le sue rovinose perdite al giuoco, che la espongono ai ricatti di un losco figuro, il Barone di Fersen, dal frasario ambiguo infarcito di termini stranieri, interpretato con caratteristica evidenza da Paolo Onori. Tutti gli clementi scenici, colpi di rivoltella, lotte al buio, apparizione di personaggi misteriosi, rumore di aeroplano ecc. funzionarono egregiamente grazie ai miei collaboratori di scena, fra cui Vincenzo Giuliani che aveva anche una parte nel dramma, e contribuirono al buon successo dello spettacolo.

Che la scelta di un dramma giallo fosse per noi una cosa eccezionale, lo dimostra la recita seguente effettuata nell'estate dello stesso anno 1936 in cui fu presentata al pubblico del Teatro Clitunno la commedia assai comica di Aldo De Benedetti: "Non ti conosco più”. Chi pronuncia questa frase è la giovane moglie di un avvocato che viene sorpreso dalla medesima in un atteggiamento un po' troppo confidenziale con la propria dattilografa. La moglie finge di essere stata colpita da una strana forma di amnesia per cui non riconosce più suo marito che scaccia alla sua presenza considerandolo un estraneo. Il <48>marito costernato chiama uno specialista psichiatra; ma la sua presenza complica le cose perché la donna lo tratta come fosse lui il marito. Da questa strana situazione scaturiscono una serie di scenette comiche che si basano sull'evidente imbarazzo del medico soffocato dalle attenzioni civettuole della presunta amnesiaca, finché l'arrivo di una zia americana con la figlia da marito viene a scompigliare la cura intrapresa dal dottore facendo scoppiare una crisi dalla quale viene fuori la confessione della presunta malata che non è mai stata tale, così che tutto rientra nell'ordine trai due coniugi rappacificati ed il medico si ritira prudentemente da ogni velleità dongiovannesca. Alla parte del medico psichiatra tentai di dare una tinta di comicità sobria, senza trascendere in allusioni volgari, ma giuocando continuamente con una mimica facciale che sottolineasse le situazioni imbarazzanti in cui viene a trovarsi il personaggio, e mi parve di csservi riuscito. Particolare vivacità dimostrò Teresina Giovannini nella parte della furba moglie, seducente e provocante nei confronti del medico, ma senza passare i limiti e pronta a dare il colpo di freno al momento opportuno. Quanto al personaggio del marito affidato al giovane Gentilucci, questi ebbe` la possibilità di dimostrare le sue qualità: buona dizione, atteggiamenti composti, penetrazione del personaggio fino a renderlo in modo convincente. Bene le altre donne fra cui Assuntina Merli che fu una zia d'America invadente ed aggressiva, anche troppo in alcune scene, la signora Bartolini nella parte della nipote in cerca di marito, e non meno felice fu Italia Falasca che tratteggiò la dattilografa sfacciatella, causa di tutti i guai. Gli spettatori si divertirono e noi più di loro.

Per continuare su questa via così bene accetta al nostro pubblico l'anno seguente scelsi un lavoro che giudicai <49>di sicuro effetto, sebbene con qualche difficoltà per la regia, messo insieme da due autori di mestiere, Luigi Bonelli ( di cui avevo rappresentato “Cicero”) e Aldo De Benedetti ( di recente ricordo cori “Non ti conosco più!”). Il titolo era: L'uomo che sorride ovvero La bisbetica domata in un altro modo e da esso poteva già prevedersi lo svolgersi della vicenda. Mentre il Petruccio della commedia shakespeariana riesce a domare la bisbetica Caterina con le maniere forti, esagerando a sua volta i difetti di lei e spaventandola con escandescenze furiose, il Pio Baldella, marito della volubile e capricciosa Adriana, bisbetica tipo 900, la doma con la dolcezza, approvando tutto quello che dice, facendola trovate di fronte alle conseguenze delle sue contraddizioni, assecondandola perfino nelle cose più astruse nelle quali sarebbe più logico attendersi un'opposizione. Cosa succederebbe a un torello furioso che volendo cozzare contro i muri, se vedesse che i muri si allontanano appena si slancia contro di essi? Finirebbe col rinunciarvi; e così succede ad Adriana che finalmente accetta la vita coniugale tranquilla che il marito le offre, dopo aver sperimentato con delusioni e disinganni le conseguenze dei suoi capricci.

Nella parte del flemmatico Pio Baldella mi trovai proprio a mio agio: era una parte davvero riposante, senza scatti, senza quel consumo di energia vitale che quasi sempre occorre spendere sulla scena. Ma tutt'altro che facile fu il mio lavoro di regista, perché non mi ero mai incontrato in una commedia così movimentata. Basti pensare che soltanto nel primo atto ci sono ben 56 scene, cioè 56 entrate ed uscite dei vari personaggi, e questo in un'atmosfera di confusione e nervosismo grazie ai capricci della protagonista che cambiava continuamente idea in merito alla disposizione dei mobili nella stanza <50>nella quale si doveva svolgere il ricevimento degli invitati alle nozze. Il Padre della sposa, esuberante, smemorato e confusionario contribuiva a creare una quantità di equivoci e ad accrescere -il disordine, e fra quell'andirivieni di domestici, impiegati della ditta, ed amici, spiccava con un vivo contrasto la figura del protagonista con la sua calma imperturbabile, ma pronto ad inserirsi nella vicenda ed a sostituirsi addirittura al fidanzato in occasione di un ennesima litigata fra i due. Il mio intento come regista era non soltanto di dare quel certo dinamismo alle scene e regolare la tempestività delle entrate e delle uscite, valendomi di un buttafuori sveglio ed attento, ma anche nel costringere tutti gli attori, ma specialmente la protagonista ed il padre di lei come pure il suo ex-fidanzato, ad una recitazione concitata e nervosa, in modo da rendere sempre più vivo il contrasto col sempre sorridente e furbo marito.

La recita riuscì discretamente anche per merito della signorina Teresina Giovannini che fu una bisbetica nel vero senso della parola, e trovò nella sua voce quei toni aspri ed acuti che richiedeva la sua parte, e fu ben coadiuvata da Marino Gentilucci, prima fidanzato poi mancato amante della protagonista con la quale ebbe vivacissimi battibecchi. Anche Antonino Sebastiani, nella parte del padre confusionario e parolaio se la cavò abbastanza bene, malgrado qualche incespicatura dovuta alla poco sicurezza della parte, che però non fu notata: perché non disdicevole al personaggio. Insomma anche questa volta restai abbastanza soddisfatto sia dell'esecuzione, sia del gradimento del pubblico. Per la cronaca, questa fu l'ultima volta che avemmo la collaborazione della signorina Giovannini, perché pochi mesi dopo convolò a giuste nozze coronando l'idillio che era sbocciato con un giovane <51>del nostro gruppo proprio durante le prove della commedia. Cose che accadono facilmente fra le filodrammatiche.

Ma non mi fu difficile ritrovare altri elementi femminili per la recita seguente, per la quale mi rifornii abbondantemente scegliendoli fra il corpo insegnante dell'istituto Commerciale di Foligno dove insegnavo dal 1933. Furono ben cinque giovani professoresse che aderirono alla mia iniziativa, alle quali aggiunsi il segretario dell'istituto Rag. Paci. Dei nostri, non contando me, parteciparono soltanto Marino Gentilucci e Antonio Sebastiani.

La commedia fu rappresentata al Teatro Clitunno il 5 Giugno 1938 ed era: “Ho perduto mio Marito!” di Giovanni Cenzato. Avrebbe potuto avere come sottotitolo: “L'arte di accalappiare un marito” ed è proprio quello che c'insegna la protagonista, la quale finge di aver perduto un merito immaginario e lo insegue in varie città d'Italia facendosi accompagnare da un suo cugino scapolo impenitente che però, a furia di trovarsi con tutta famigliarità con quella ragazza carina e intraprendente, finisce per diventarne innamorato; e quando è cotto a dovere, lei non fa che tirare le reti: il marito immaginario scompare e... il merlo è preso.

Le quattro professoresse recitarono abbastanza bene, specialmente la signorina Scagliarini che aveva una figura graziosa e fu vivace e birichina e piacque al pubblico. Una di esse si prestò come suggeritrice, il Rag. Paci nella parte del finto marito, contribuì al finale della commedia.

Rivedendo il resoconto finanziario di quella rappresentazione trovo che al successo artistico non corrispose il successo economico, in quanto che ci fu una perdita di L, 65,60. Fortuna che avevo messo da parte qualche <52>cosa dalle rappresentazioni precedenti e potei cavarmela senza rimetterci di tasca mia!

Durante l'inverno ebbi la sorpresa di sentire che una compagnia drammatica, capeggiata da Liberto Palmarini, aveva chiesto ed ottenuto per qualche sera l'uso del nostro Teatro. La notizia che un grande attore come Liberto Palmarini, di cui avevo ammirato molte interpretazioni tra le quali quella magnifica dell'Enrico IV di Pirandello, veniva proprio a Trevi, mi sembrava incredibile. Ma quando fui pregato dalla Direzione Teatrale di ospitarlo nella nostra casa, richiesta ben volentieri accettata, e me lo vidi davanti, capii la ragione perché quello che era stato uno dei migliori attori italiani del primo dopoguerra, potesse ridursi a piantar le tende in un piccolo Teatro di provincia. Era un rudere di uomo, malandato di salute, rovinato dall'abuso del fumo e del caffè. Mi confessò di essere arrivato a 150 sigarette al giorno e ad un numero incredibile di caffè.

Le sue recite, nelle quali si riservava delle parti secondarie, non potevano non deludermi, sebbene di quando in quando vi rivelasse qualche bagliore della sua antica potenza di attore, ma non paragonabile a quello che rimaneva di lui nel mio ricordo. Anche gli attori che aveva raccolto con sé, sebbene non spregevoli, non erano di grande merito. Seppi poco tempo dopo la sua partenza che era morto a Milano. Me ne rimase un triste ricordo ed un esempio di quello a cui può condurre una vita sregolata.

Poiché sono entrato nell'argomento di compagnie di professionisti passate per il nostro Teatro, tornando indietro nel tempo, mi piace ricordare un'altra compagnia venuta alcuni anni prima, credo nel 1931, quella di Gastone Monaldi, un tempo rinomato attore in vernacolo <53>romanesco, che presentò invece, con la moglie Fernanda Battiferri lavori del vecchio repertorio, ancora graditi al nostro pubblico, come “Il Padrone delle Ferriere” ed anche qualche lavoro più recente coree "Il piccolo Lord”. E per tornare ancora più indietro, fra i ricordi d'infanzia, ci sono le recite della compagnia di Pippo Tamburi che in dialetto romanesco si presente fra l'altro “Santarellina” “Er purcino tra la stoppa”. Poco tempo dopo passò a Trevi un'altra compagnia di cui non ricordo i nomi che presentò dei lavori altamente drammatici che fecero grande impressione al mio animo di ragazzo e furono “La fiaccola sotto il moggio” di D'Annunzio, la “Margherita Gauthier” di Dumas e “La moglie del Dottore” di Zambaldi.

E a conclusione di queste notizie su compagnie di attori professionisti passate nel nostro Teatro, non voglio tralasciare il ricordo della compagnia Cerlesi-Zanzi, composta da bravi attori (Il Crlesi passò poi al cinematografo) che si fermò a Trevi nel 1932 durante la permanenza di un gruppo di allievi ufficiali di Spoleto e rappresentò vari lavori, ad alcuni dei quali noi filodrammatici fummo invitati a partecipare. Io mi trovai a rappresentare una parte in “Parigi !” di Adami ed un'altra in “Romanticismo” di Rovetta nel quale fui Cesky, il romantico polacco che tradisce per amore. Ricordo la simpatia cordiale con la quale eravamo accolti dagli attori, ma anche la difficoltà di affiatarci con loro e di adattarci al loro modo dì recitare, intimoriti dalla loro estrema sicurezza sulla scena e della tecnica di professionisti che otteneva con grande facilità degli effetti che a noi costavano invece tanta fatica ed impegno.

Intanto, per ritornare alla nostra storia, si era giunti alla primavera dell'anno cruciale 1939. Come oramai <54>avveniva spesso, c'era a Trevi un battaglione di allievi ufficiali e naturalmente parecchi ufficiali del 52° Reggimento Fanteria di stanza a Spoleto, come istruttori. Malgrado le nubi minacciose che oscuravano l'orizzonte della politica internazionale, la nostra Filodrammatica, in unione con alcuni giovani militari, mise in scena, valendosi di un certo aiuto per la regia di un allievo che aveva vinto i Littoriali del Cinema e che aveva nome Squitteri, una brillante commedia di Corra e AchilleIl Pozzo dei Miracoli” che avevo visto recitare da Gandusio. Vi presero parte un ufficiale e due allievi oltre alla nostra compagnia per la quale va ricordata la signorina Italia Falasca nella parte difficile della protagonista, Luigi Cecchini nella parte del Maggiordomo, Antonio Sebastiani in quella di un solenne magistrato, la signora Bartolini, una vivace cameriera, e Paolo Onori, il marito burlone. Io mi assunsi la parte del protagonista e ce la misi tutta per rendere quel personaggio pieno di. verve il più effervescente possibile. L'interesse di un pubblico non comune ed i suoi consensi di simpatia mi diedero una discreta soddisfazione. Per chi non la conoscesse, la commedia inette a confronto due situazioni paradossali: da una parte uno strano marito, partito per l'Africa, fa credere dì essere morto ed impone per testamento alla bellissima presunta vedova, se non vuol perdere la sua vistosa eredità, di sposare il 10° accattone che facesse la fila per la minestra dei poveri distribuita da un ente assistenziale in Budapest; dall'altra, un artista di fama, brillante prestigiatore e illusionista, ha fatto una scommessa, che dovrà avere una forte risonanza pubblicitaria, di vivere per un anno di elemosina, sotto mentite spoglie. Il caso (o meglio i due autori della commedia) mettono a confronto i due personaggi, poiché il presunto mendicante viene pescato <55>proprio al decimo posto della fila dei poveri e trasportato dall'esecutore testamentario nella fastosa residenza della bella vedova. I casi divertenti derivati da questa strana situazione si moltiplicano; l'uomo stupisce tutti per le sue trovate e la sua abilità dì presunto ladro, smaschera un tipo equivoco pretendente della graziosa vedova di cui voleva assicurarsi l'eredità, ed infine riesce ad interessare la donna, la quale dopo vari tentativi di resistenza si sente attratta dal fascino di quell'uomo misterioso che le prospetta una vita piena dì movimento e di avventure. Si avvia così verso la definitiva unione con l'uomo che in un primo momento credeva di dover subire con repugnanza. Sul più bello ritorna il marito dall'Africa, il creduto morto, che provoca uno scompiglio generale. Lui crede di accomodar tutto mettendo la cosa in burletta, ma trova una resistenza che non s'aspettava e riapre una crisi che sembrava risolta, ma che si risolverà infine in un modo del tutto inaspettato, non troppo felice per il marito stravagante.

Mentre recitavo in questa commedia davanti ad un pubblico composto in gran parte da militari, compreso il Comandante del Reggimento ed alcuni Comandanti di battaglione, non avrei mai pensato che, poco più di un mese dopo, sarei stato richiamato alle armi e mi sarei trovato alle dipendenze proprio di quegli Ufficiali Superiori col grado di Capitano, e che avrei passato circa cinque mesi di servizio militare, in clima prebellico, partecipato a un campo d'armi. e ad esercitazioni tattiche, in mezzo ad un ambiente dov'ero, fra l'altro, conosciuto come “quel capitano che recitava” !

Intanto, come si temeva, la follia del maniaco Hitler scatenò la seconda guerra mondiale, che doveva essere così fatale all'Italia. Però in un primo momento sembrò <56>che il nostro Paese rimanesse estraneo, avendo il Governo pronunciato una dichiarazione di non belligeranza. Cosicché, malgrado la situazione sempre preoccupante, interrotto il mio servizio militare perché esonerato come capo d'azienda, trovai modo di far qualche cosa per il Teatro. Durante la primavera del 1940, prima che il fatale 10 giugno portasse anche l'Italia alla dichiarazione di guerra, mettemmo in scena un lavoretto di Gaspare Cataldo: “La Signora è partita” che fu rappresentata al Clitunno il 7 aprile e fu ripetuta la Domenica seguente al Teatro Littorio di Montefalco e poi ancora a Todi il 21 aprile. È stata la prima volta che ho preso l'iniziativa di portare la nostra piccola compagnia fuori del nostro ambiente. E posso dire che è stata una cosa divertente, perché abbiamo trovato buone accoglienze dappertutto ed elogi ed un onesto svago nelle varie allegre cenette che accompagnavano le recite. Bisogna dire che la commedia scelta non ci creava troppi problemi. Era basata su di una trama leggera che trattava di una crisi matrimoniale felicemente risolta, cd aveva scarse esigenze di scena e di vestiario, cosicché, se non ci avanzò molto per la copertura delle spese, bastò per farci godere due belle scampagnate.

Ma, ahimé, era l'ultimo felice periodo della nostra Filodrammatica, prima che la terribile guerra, che secondo i Tedeschi doveva essere una guerra lampo, si estendesse anche alla nostra Italia e sconvolgesse tutto il mondo con una serie di disastri, di stragi, di rovine immense. Era logico in queste condizioni lasciare da parte ogni progetto di recitare. Eppure, nella primavera del 1941, quando sembrava che la guerra risparmiasse il nostro territorio e si avviasse ad una soluzione, ci fu da parte nostra un timido tentativo di mettere in scena una <57>commedia di Giovanni Cenzato intitolata “Il Ladro sono io!“. La commedia ebbe un modesto successo ed ebbe a protagonista femminile la signorina Falasca. Fu un tentativo sporadico perché la guerra ormai divampava in tutto il mondo e doveva anche estendersi nel nostro territorio nazionale. Per quattro anni e cioè fino all'epilogo della tragedia non ci furono nostre rappresentazioni al Teatro Clitunno. Ricordo che verso la fine di maggio del 1944 esso ospitò una troupe di artiste tedesche di varietà, che poi dopo la mezzanotte si trasferirono in casa mia, già occupata da ufficiali delle Luftwaffe, e passarono il resto della notte in baldoria, con quanto diletto mio e della mia famiglia ammucchiata in poche stanze, è facile immaginare.

 

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