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Memorie di un filodrammatico - 3
Dopo l'Aliprandi: la crescita continua
 

(Augusto Bartolini, Memorie di un filodrammatico, Assisi, Porziuncola, 1971)

 Il Teatro Clitunno
 La Filodrammatica e i gruppi
 Teatro a Trevi: storia e tradizione
 Premio Città di Trevi

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<28 seg.> Ed eccomi ad una svolta decisiva nella storia della mia carriera filodrammatica. Nell'estate di quell'anno 1922 decidemmo di riprendere le prove di una commedia che era già stata scelta dalla defunta Direttrice prima della sua fine. Mi trovai così ad un tratto, quasi senz'accorgermene, per unanime consenso degli attori, ad essere il responsabile della Direzione Artistica dei lavoro. Si trattava di “Tobia e la Mosca” di Cesare Vico Ludovici, una commedia di tipo quasi goldoniano, nella quale Luigi Cecchini nella parte del protagonista diede ottima prova. Fu bonaccione, pigro e succube della serva padrona Corallina che poi finisce con sposare. Assuntina Merli fu una Corallina vivace, faccendiera, aggressiva e rese bene la sua parte. Io me la cavai bene nella facile parte dello Sconosciuto, un Don Giovanni forestiero infine smascherati. Piacque la commedia e piacque l'insieme, con soddisfazione dei recitanti e del pubblico. E per il mio primo successo come direttore fui tanto incoraggiato che nella stessa estate allestii un altro lavoro di mole ed impegno assai maggiori.

Fra la vecchia commedia in cinque atti: “La Donna Romantica ed il Medico Omeopatico” di Riccardo Castelvecchio, che mi era piaciuta molto un paio d'anni prima al Teatro Argentina di Roma nella interpretazione della famosa compagnia Talli, con Annibale Betrone e Maria Melato nelle parti dei protagonisti. La commedia conteneva molti elementi da far presa sul pubblico, specialmente nella parte del protagonista che con la cura <29>omeopatica della giovane contessa Irene e col suo esagitato uniformarsi alla esaltazione romantica della paziente, fino a condurla ad un finto suicidio, ha una quantità di risorse che io cercai di sfruttare il più possibile, e penso con successo, se devo dar credito alla reazioni del pubblico che per la prima volta sentii partecipare con indubbie manifestazioni di simpatia alla tragicomica vicenda. Mi accorsi fin d'allora che non ci voleva meno di quella eccitante sensazione di simpatia e di approvazione del pubblico per far dimenticare tutte le difficoltà, le amarezze e le fatiche che un direttore filodrammatico doveva affrontare e superare prima di giungere alla rappresentazione del lavoro prescelto.

A questo punto non sarà privo d'interesse che io faccia una esposizione per sommi capi di quelli che erano allora i compiti del direttore della Filodrammatica e attore per giunta che spesso doveva assumere anche la parte più impegnativa nel lavoro da rappresentare.

Mi accorsi subito che la prima importante difficoltà era data dalla scelta del lavoro. Una scelta felice ed una opportuna distribuzione delle parti hanno sempre significato per me un'assicurazione del 50% delle probabilità di un buon successo. Ma la commedia o il dramma preso in esame dovevano anzitutto piacere a me, che dovevo, in certo modo, innamorarmene, sentire profondamente le varie parti e farmi un quadro il più possibile esatto delle interpretazioni dei vari caratteri. Naturalmente il lavoro doveva essere pulito dal punto di vista morale e capace di interessare il nostro pubblico, che, senza essere troppo raffinato, era cd è piuttosto esigente, data la frequenza di allora di spettacoli generalmente ben curati sotto ogni punto di vista. Poi doveva anche piacere anche ai futuri interpreti. Ah! che preoccupazione quelle <30>prime letture, quando ad ogni fine d'atto spiavo le facce degli attori e rilevavo qualche più o meno dissimulato dissenso! Naturalmente prima della lettura io avevo già destinato le varie parti alle persone che meglio giudicavo si adattassero ad esse per età, figura, attitudini speciali. Quanti bei lavori dovetti abbandonare perché non trovavo l'attore o l'attrice adatti anche per un solo personaggio!

E una volta fatte accettare le parti, spesso non senza contrasti, cominciavano le prove, vero esercizio di pazienza, prima per spiegare a ciascuno il suo personaggio, poi ripetere più e più volte l'intonazione esatta, correggere le pronuncie errate, suggerire gli atteggiamenti adatti. Il maggior tormento era l'aver a che fare con quelli che, o per incapacità o per scarsa volontà, non si decidevano mai a mandare a memoria la loro parte, compromettendo la vivacità del dialogo, e rinunziando a una quantità di effetti utili a far presa sul pubblico. Di più essi contribuivano ad allungare eccessivamente le prove, stancando inutilmente i più diligenti. E questo non era tutto. Fin dalle prime prove il Direttore attore doveva cominciare a pensare alle scene, al loro arredamento, e al fabbisogno di vari oggetti occorrenti per la recita. Ed erano guai seri, perché solo raramente si poteva trovare qualcuno che si prendesse la briga di dar un aiuto, almeno in quei primi tempi. Fortuna, che non mancava l'entusiasmo che mi faceva superare ogni ostacolo ! Più tardi soltanto, dopo la seconda guerra mondiale, potei affiancarmi dei validi elementi che furono veramente preziosi per abilità e iniziativa in questo campo. Sempre in quei primi tempi toccava a me a pensare a tutto; non bastava svaligiare la mia abitazione, andare dai conoscenti a farsi prestare dei mobili, ma bisognava spesso andare a Roma per procurarsi<31> delle parrucche e materiale per il trucco ed eventualmente anche dei costumi.

Della commedia “La donna romantica e il medico omeopatico”, andata in scena il 9 settembre del 1922 ricordo due particolari che dimostrano ancora una volta la necessità di una buona dose di pazienza nel trattare i filodrammatici. Nella distribuzione delle parti, una giovane dilettante mi si rifiutò di accettare la parte della cameriera Vespina, adducendo la ragione che già nella commedia precedente aveva “fatto” la cameriera. Dovetti sudare sette camice per persuaderla che quella era una parte di molto rilievo e che nella edizione della grande compagnia Talli era stata affidata alla prima attrice giovane, la Valsecchi, che aveva recitato deliziosamente. Per toglierla dall'impuntatura dovetti persino prometterle che nella prossima recita le avrei fatto fare la parte di una Marchesa o di una Contessa.

La sera della rappresentazione, al primo atto, capitò un incidente che poteva mettere in difficoltà chi stava recitando. Sulla scena il Conte Pomo, anziano e bonaccione, aveva convocato il Dottor Nuvoletti per consultarlo sulle stranezze della giovane moglie e doveva offrirgli un caffè. Ma quando il dottor Filippo Dominici nella parte del conte Pomo ed io, nella parte del Dottor Nuvoletti bevemmo un sorso del caffè che l'amico Gino Paglioni nelle vesti del cameriere Marco ci aveva versato dalla caffettiera, ci guardammo esterrefatti. Il caffè era di un sapore rivoltante. Quel birbone, invece dello zucchero, ci aveva messo dentro un grosso pugno di sale! Il pubblico non s'accorse dello sguardo feroce con cui fulminammo il colpevole, e la scena proseguì, come era nel testo, con un paio di battute elogiative sulla buona qualità del caffè! Imprevisti di questo o <32>di altro genere me ne dovevano capitare parecchi durante la mia lunga esperienza fra i filodrammatici; ma generalmente si risolvevano con abbastanza disinvoltura all'insaputa del pubblico.

La carica di entusiasmo acquistata con il successo della “Donna Romantica.” non mi permise di riposarmi sugli allori; così, malgrado i miei impegni universitari, durante l'inverno 1922-23 misi in scena “La Farfallite” (“Papillon”) di Vittoriano Sardou, nella quale me la cavai discretamente nella parte di un giovane marito che, in cerca di distrazioni extraconiugali, s'imbarca in una bizzarra avventura con una sconosciuta che infine viene a scoprire essere la propria giovane moglie. Parteciparono alla commedia che fu definita divertente dagli attori e dal pubblico le due signorine Assuntina Merli, la zia furba che ordisce l'intrigo e prepara la trappola per il marito donnaiolo, Maria Ottavi, la giovane moglie ingenua ma non troppo, e Paolo Onori, nella parte di un innamorato geloso.

Quest'ultimo filodrammatico, che partecipò alla recita di una quindicina di lavori teatrali del 1919 al 1946, era fornito di caratteristiche così particolari da meritare che se ne faccia una breve descrizione. Da giovanissimo era stato a lavorare nella Svizzera dove aveva partecipato a qualche recita di Filodrammatici nella colonia Italiana. Ritornato a Trevi aveva aperto una bottega di fabbro ferraio e vi lavorava con dignità, non mancando nei giorni festivi di passeggiare per il corso in cappello duro e pelliccia, d'inverno, s'intende, mentre in estate sfoggiava vestiti chiari e paglietta. Occhi e capelli nerissimi, scuro di pelle, aveva una voce potente; adatto per le parti da tiranno e da cattivo. L'Aliprandi lo aveva scelto per la parte del feroce Corrado Trinci nel dramma <33>Francesco  Manenti da me ricordato. Le abitudini contratte in Svizzera lo facevano affrontare le prove con disciplina ed impegno e se la cavava benino, malgrado fosse un po' restio ad imparare la parte e per giunta un po' duro di orecchio. Disgraziatamente era uno di quei filodrammatici che si lasciavano suggestionare dai giudizi preventivi dei cosidetti critici del paese, e spesso me li riportava insieme a previsioni più o meno catastrofiche ma sempre cervellotiche che io, immerso fino al collo nei problemi che scaturivano sempre più fitti ad ogni recita, accoglievo con quel gusto che si può immaginare.

A primavera avanzata, il 30 maggio 1923, andò in scena “Nevicata d'Aprile” di Paola Riccora, un'ingenua vicenda d'amore su sfondo risorgimentale che ebbe a protagonista femminile la mia sorella Luigina che recitò per quella unica volta nella parte di una giovanissima vedova che per ragioni... testamentarie doveva accogliere nella sua villa un giovane nepote suo coetaneo rimasto orfano, e che, malgrado il travestimento e la truccatura che la donna assume per sembrare una vecchia zia al nipote fino allora sconosciuto, finisce coll'innamorarsi di lei e... viceversa. Mia sorella, superando qualche crisi di scoraggiamento durante le prove, crisi che io le feci vincere con la mia insistenza, fu una Delia graziosa e convincente e fu molto applaudita. Giovarono alla riuscita della commedia anche una quantità di figure di secondo piano; ma assai ben disegnate, come un vecchio parroco bonario caratterizzato da Paolo Onori, una contadinella birichina che feci parlare in dialetto locale, interpretata dalla giovanissima Anna Pasi che fu una rivelazione per brio e spontaneità, un buffo notaio che Augusto Elefante rivestì di aspetti assai comici, ed altri tipi non meno caratteristici, fra cui primeggiava Luigi Cecchini, <34>nella parte di un maggiordomo all'antica, che egli delineò con la solita autenticità.

Per quell'anno non ci furono altre rappresentazioni, anche perché in autunno io mi recai a Londra per motivi di studio. Avevo intenzione di preparare la mia tesi di laurea su di un autore teatrale inglese. Durante la mia permanenza a Londra frequentai spesso il teatro di prosa, ammirando molto l'accuratezza della messa in scena, dovuta alla ricchezza di mezzi a disposizione della regia, come pure al fatto che la spesa veniva ripartita in un grandissimo numero di repliche che talvolta duravano più di un anno nei lavori fortunati e dato il gran numero dei teatri (allora ce ne erano 39 nel West End) il pubblico si rinnovava ugualmente. Non mancai di assistere al famoso Old Vic Theatre a qualche rappresentazione Shakesperiana, tra cui ricordo un'ottima “Twelfth night”. Ma il tremendo clima invernale di Londra non si conferiva alla mia salute e così prima che finisse l'inverno tornai a Trevi e poi a Roma, dove, abbandonando l'idea della tesi sopra un autore drammatico inglese, passai ad un argomento sul Teatro Americano, approfittando della cortesia di chi allora reggeva l'Associazione Italo-Americana, che non solo mise a mia disposizione la ricca biblioteca americana di Palazzo Salviati al corso Umberto, ma fece anche venire espressamente dall'America alcune opere di cui avevo bisogno.

 [Augusto Bartolini fu considerato un vero esperto del Teatro Americano tanto che fu invitato a collaborare alla compilazione della prestigiosa Enciclopedia Italiana, per quanto riguardava questo argomento. Le "voci" riguardanti il Teatro Americano sono tutte firmate con la sua sigla "AuB"]

Ma durante l'estate del 1924, tornato a Trevi, non potei fare a meno di dedicare almeno un mese alla mia passione favorita, e così misi in scena l'“Antenato” di Carlo Veneziani, che m'entusiasmò alla prima lettura e fu accettato questa volta anche dai dilettanti con entusiasmo senza alcuna obbiezione. Infatti non solo la mia parte si si adattava alla mia figura ed al mio temperamento, ma anche le altre erano state distribuite felicemente.

<35>La vicenda della commedia è basata sul ritorno invita di un esuberante barone di Montespanto il quale, per opera magica di una strega che egli aveva offeso intorno all'anno 1000, si trova in morte apparente (sine morte mortuus, sine vita vivens) dalla quale però gli è consentito di venir fuori per un breve periodo, ogni 300 anni. Le sue reazioni alla civiltà del '900, evidenziate in una serie di scene di grande comicità in cui l'Antenato ne combina di cotte e di crude, mettono in un mare di guai l'ultimo discendente della stirpe, un giovane ingegnere che per salvarsi dalla rovina finanziaria e poter conquistare il cuore della donna che ama e salvarsi da un'altra donna che lo perseguita, ha deciso di vendere il suo castello, ultimo residuo della passata grandezza.

Il soggetto non è proprio originale e le massime di vita propugnate dall'Antenato non troverebbero consenzienti tutti gli spettatori di oggi, ma la commedia è costruita con abilità ed il pubblico si diverti un mondo a sentirla. Mi è sempre sembrato strano che l'autore l'abbia fatta rappresentare dal comico Gandusio, il quale, bravissimo attore sotto tutti gli aspetti, nei panni del protagonista non aveva, come si dice, le phisique du ròle, basso e traccagnotto com'era. Nel nostro caso invece, a parte la distanza che corre tra un attore di professione e dei filodrammatici, il contrasto fra la mia figura, che il costume secentesco, gli altri stivaloni ed il cappello piumato facevano apparire ancora più alta del reale, e quella del filodrammatico Faustino Marcelloni, che rappresentava il Postero, assai mingherlino, era assai evidente e dava un'idea di un confronto piuttosto svantaggioso tra la razza degli antichi e quella dei moderni.

Mi viene in mente un particolare che può dimostrare ancora una volta quanto la naturalezza in scena concorra <36>all'effetto e quindi al successo nei confronti del pubblico.

Nel finale del secondo atto, mentre il pronipote ingegnere, a causa dei guai combinati dall'Avo, si abbatteva in una crisi di scoraggiamento e tentava di togliersi la vita, entrava in scena, con la madre, la giovane Vannetta da lui amata senza successo. L'Antenato ha un'improvvisa intuizione, afferra la giovane, la getta nelle braccia del nipote, gridando: “Prendi, godi, vivi, è tua!”. E mentre la Madre, esterrefatta, gli grida: “Signore, voi siete un mascalzone!”, egli l'afferra alla vita, la solleva e la porta via gridando: “Taci, megera, così vuole il Marchese di Montespanto!”. Ora, l'anziana signorina che aveva la parte della Madre, per un certo senso di pruderie mi aveva fatto promettere che non l'avrei afferrata, sollevandola da terra, ma l'avrei semplicemente tirata via per un braccio. Ma che volete? in quel momento, nel fervore della parte, dimenticai la promessa e feci come andava fatto. Infuriata per davvero, l'anziana signorina si divincolava e sgambettava tra le mie braccia in modo così vero che quando calò il sipario ci fu un subisso di applausi! Inutile dire che io poi le chiesi perdono e fui scusato in nome dell'arte!

Le scene del castello furono eseguite da un filodrammatico professore di disegno, Vincenzo Giuliani, che seppe creare l'ambiente tetro e misterioso della sala del castello. Ci devono essere ancora due ritratti di antenati eseguiti dal Conte Antonio Valenti e dalla sua signora Contessa Paola, la quale fece addirittura il mio ritratto (come era richiesto dal copione) con pizzo, baffi, acconciatura e costume seicentesco, molto somigliante.

Il successo dell'Antenato mi diede la sensazione che il nostro gruppo Filodrammatico poteva continuare nella strada intrapresa sotto la mia direzione con buona probabilità <37>di riuscita, purché si perseverasse sui tre punti fondamentali già da me ricordati e cioè: scelta del lavoro adatto al nostro pubblico, distribuzione appropriata delle parti, preparazione accurata e messa in scena decente. Purtroppo il successo artistico non era stato finora accompagnato dal successo economico. Le spese sostenute per le scene ed eventuali costumi e parrucche, le tasse erariali e i diritti d'autore, i servizi del Teatro e la percentuale dovuta alla direzione del Teatro stesso ci permettevano spesso si e no il pareggio con gl'incassi della vendita dei biglietti, e solo con una seconda rappresentazione, naturalmente con minor pubblico, potevamo prenderci il lusso di pagarci una cenetta, consumata allegramente, a spettacolo finito, in uno dei ristoranti locali.

Il dovere mi richiamava a Roma, anche perché avevo cominciato la preparazione della mia tesi di laurea per cui dovevo frequentare la Biblioteca Americana a Palazzo Salviati, restando sempre impegnato col Teatro, in quanto che l'argomento scelto era “Origine e primo sviluppo del Teatro in America”. Mentre io stavo lavorando sulla tesi durante l'inverno, mi viene fatto sapere che a Trevi, per iniziativa di Faustino Marcelloni, quel filodrammatico esperto di musica di cui ho già parlato, si stava allestendo un'operetta musicale, e che essendo in due atti, sarebbe stato opportuno farla precedere da un atto di prosa. Cedetti alla tentazione e, tornato a Trevi per le Feste Natalizie, preparai velocemente “La Patente” di Pirandello. Quel personaggio di Rosario Chiarchiaro che, esasperato dalla sua fama di jettatore, stretto dalla miseria, invelenito dall'odio verso i suoi concittadini che gli negano il lavoro, decide di entrare ufficialmente in quella maschera che gli è stata imposta, assumendone l'aspetto esteriore e facendosi rilasciare una specie di patente per mezzo di <38>una sentenza del Tribunale, per sfruttarla come fonte di guadagno, mi aveva attirato molto e mi studiai di renderne la figura più aderente possibile all'intenzione dell'Autore, prima con la truccatura, facendomi un viso grifagno incorniciato da una rada barba nera e con grossi occhiali a cavallo del lungo naso, poi col vivere fino all'esasperazione il dramma e la sofferenza di quel disgraziato. Mi sembrò di non aver mancato di realizzare questa visione che avevo avuto del personaggio, ma i dilettanti che partecipavano al lavoro non mi seguirono abbastanza con il dialogo serrato e incalzante caratteristico del testo di Pirandello. Il grosso pubblico si diverti di più coll'operetta “Il Mistero di Pierrot” di cui curai la regìa assumendo anche una particina di fianco, mentre i due protagonisti erano Luigi Cecchini ed Assuntina Merli, le due migliori voci della nostra Compagnia. L'operetta fu ripetuta pochi giorni dopo e la seconda volta si fece precedere da un altro atto unico che fu: “O bere o affogare” di Castelnuovo, che avevo già recitato a Roma in famiglia, nel 1919. Ne furono interpreti la signorina Giovannini Dalila, disinvolta e vivace come sempre (era stata l'attrice giovane dell'Antenato) e Paolo Onori, nella parte del figlio ed io nella parte di quello che deve bere o affogare (intendi prender moglie). Ricordo una bella papera che presi in una scena con la Giovannini, di cui ricordo ancora gli occhi sbarrati per la sorpresa ed il panico, che io feci superare proseguendo imperterrito.

Con una esperienza filodrammatica di alcuni decenni, le papere prese da me e dagli altri attori, potrebbero fare un piccolo testo aneddotico, e dar luogo a riflessioni. La prima è, che ogni tanto sono inevitabili (vedi gli attori di professione ed anche i presentatori della T.V.) la seconda è che per la maggior parte passano inosservate <39>dal pubblico, purché lo sfortunato attore non si corregga e prosegua con disinvoltura la sua battuta. Ci sono, è vero, i cosiddetti sciacalli che, o per aver violato il segreto delle prove, o per essere esperti di teatro, si accorgono della papera e, se è comica, “beccano”, come si dice in gergo teatrale, lo sfortunato attore richiamando l'attenzione del resto del pubblico.

A questo punto delle mie memorie, trovo una lacuna di circa due anni. Dalla primavera del 1925 alla primavera del 1927 ci furono tre avvenimenti importanti, nella mia vita: la mia laurea, il mio matrimonio e un lutto di famiglia. In tutt'altre faccende affaccendato, mi tenni lontano dal palcoscenico.

Nel mio elenco dei lavori rappresentati trovo, alla primavera del 1927, una vecchia commedia di Bayard e Veilly, “Il Marito in Campagna” che ebbe nella parte del marito il brillante Antonino Sebastiani, già nominato come macchiettista di canzonette, dalla comicità un po' stereotipata, ma gradita al pubblico locale, terribilmente refrattario ad imparare la parte, il che esigeva da me una buona dose di pazienza, Non fui molto soddisfatto del come mi venne fatta la mia parte di generico, ma il pubblico si diverti nella vicenda ed apprezzò specialmente la recitazione aggraziata e disinvolta della Signora Ninetta Pagliochini nella parte di una giovane vedova centro di attrazione di molti corteggiatori,

Nello stesso anno, il 4 novembre, anniversario della Vittoria delle nostre armi, fu organizzata una serata patriottica, ed insieme a pezzi scelti di musica, fu presentato da me un bozzetto drammatico “La Campanella di Listz”, in cui è narrato il commovente incontro di un giovane ufficiale che torna dalla guerra mutilato della mano destra, con la Madre cieca a cui è stata nascosta la <40>verità e che si vorrebbe mantenere nell'illusione. Lo scopo è raggiunto) con la collaborazione di una generosa crocerossina che si è esercitava lungamente a suonare con l'ufficiale, valente pianista, la Campanella di Listz, sostituendo con la sua la mano perduta del giovane, il quale potrà così rendere felice la mamma con un'esecuzione perfetta della sonata a lei tanto cara. Ricordo in modo speciale questa recita perché fu l'ultima volta che la signora Emma Arredi, una filodrammatica che si era distinta per temperamento e per ottime disposizioni naturali fino dei primissimi anni di questo secolo, si presentò sulle nostre scene. E fu veramente efficace nella parte della madre cieca, facendo vibrare di commozione non soltanto il pubblico, ma anche noi che prendevamo parte alla scena.

Due anni dopo mi arrischiai a presentare al pubblico di Trevi quella deliziosa commedia di Edmondo Rostand che s'intitola “I Romanzeschi”. Era un pezzo che ci pensavo perché mi era piaciuta molto quando la vidi rappresentare a Roma alcuni anni prima. Le figure che si agitano in questa vicenda su di uno sfondo romantico attenuato da preziosità alla Watteau, dovevano conservare un tono tra il drammatico, il patetico e il parodistico, caratteri che non fu facile ottenere dai nostri dilettanti che erano, però, a dire il vero, tra i migliori di quelli di cui potevo disporre. I due giovani protagonisti, Ugo Bonaca e Ninetta Pagliochini colsero bene tutti gli aspetti di quella infatuazione romantica dei due giovani esaltati per il supposto contrasto paterno al loro sogno d'amore e seppero far accettare i non facili versi del dialogo con una dizione ben limpida e armoniosa. I due padri, finti nemici e aspiranti suoceri, erano il bravo Luigi Cecchini e Antonino Sebastiani che se la cavarono senza troppe <41>difficoltà con i versi e diedero evidenza alle gustose macchiette dei due vecchi puntigliosi e furbastri. lo entrai nella parte del Deus ex Machina, l'astuto Straforello che, d'accordo con i vecchi per nascondere l'apparenza del matrimonio combinato, ordisce la trama di un falso rapimento prima e di uno stratagemma poi per riappacificare i due fidanzati in temporanea rottura. Si trattava di una figura eroico-comica, che aveva punti di contatto con quella dell'Antenato e si adattava alla mia figura ed al mio temperamento, quindi ebbi l'impressione di non essere riuscito male nella parte. Com'era da immaginarsi, il pubblico del nostro paese non apprezzò le finezze del lavoro, né aveva, salvo poche eccezioni, la coltura sufficente per riportarsi all'ambiente e all'epoca della vicenda, e quindi fu un poco deluso. Per fortuna nel lavoro non mancavano i lati comici accessibili a tutti, e le caricature e gli sberleffi dei due caratteristi divertirono il pubblico meno raffinato che non restò del tutto scontento.

Il ritmo delle rappresentazioni però andava rallentando, sopratutto perché, date le mie molteplici occupazioni mi era difficile distrarre tutto il tempo necessario per l'allestimento di una recita, che era, nelle condizioni di allora in cui tutto gravava sulle mie spalle, un tour de force e una cosa molto impegnativa. Ma negli intervalli di tempo sempre più lunghi si accumulava in me la carica dell'entusiasmo ed alla fine esplodeva nella decisione di organizzare un'altra recita.

Fu nel 1932 che, in occasione della permanenza qui in Trevi di un battaglione degli allievi ufficiali di Spoleto in un campo di addestramento, mettemmo in scena una leggera ma graziosa commedia dei Fratelli Quintero: “Il Paese delle Donne”.

Questa commedia, per chi non la conosce, è una vivace <42>pittura d'ambiente di un piccolo paese spagnolo, nell'Andalusia, dove la gente si occupa molto dei fatti degli altri e dove ci sono una quantità di ragazze in attesa dell'anima gemella. L'arrivo di un forestiero, bel giovane e buon partito, mette in subbuglio la piccola comunità, specie quando sì rivelano le sue preferenze per una delle più belle ragazze del luogo. La conclusione a cui si giunge malgrado contrasti e pettegolezzi, è ovvia. Una donna intrigante, un vecchio dottore scanzonato, una buffa madre ed un vecchio parroco bonario completano la galleria dei ritratti. Feci una mobilitazione generale di tutte le ragazze più carine di Trevi e vi aggiunsi una maestrina di Foligno anch'essa carina e che si prestava molto bene alla parte della protagonista. La presenza di quello speciale pubblico, composto in gran parte d'allievi ufficiali galvanizzò le ragazze che fecero del loro meglio incoraggiate dalla simpatia degli spettatori ai quali la commedia piacque tanto che fu ripetuta due volte con successo. Siccome era in due atti fu fatta seguire da una farsa all'antica “Non v'è amore senza stima” che però, sebbene imperniata sul bravo Cecchini, non suscitò molto entusiasmo.

 
 

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