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La chiesa monumentale della Madonna delle Lagrime

XVII    LE CAPPELLE
9°) - LA CAPPELLA DELLA RESURREZIONE

 

 

(Tommaso Valenti, La chiesa monumentale della Madonna delle Lagrime, Roma, Desclée, 1928 - pagg. da 219 a 241)

[ I numeri in grassetto  tra parentesi acute <  > indicano le pagine del volume originale. Le parole divise a fine pagina sono trascritte interamente nella pagina in cui iniziano]

 

 

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Anche di questa cappella abbiano sufficienti notizie storiche, che ci permettono di ricostruirne con precisione le vicende principali.

Nel 1528 era chiamato dal papa Clemente VII ad assumere in Roma l'importantissimo ufficio di Procuratore fiscale il cittadino trevano


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Benedetto Valenti. Questi era nato nel 1486, un anno dopo la miracolosa manifestazione della Madonna delle Lagrime.

Compiuti a Perugia gli studi legali ed addottoratosi in utroque, nei primi anni del secolo XVI Benedetto Valenti tornò a Trevi e si trovò in mezzo al fervore dei lavori per la nuova chiesa.

Era naturale che anch'esso, ottimo cittadino, volesse, come gli altri buoni trevani, contribuire alla magnificenza del nuovo edificio, come meglio per lui si poteva. Ed infatti egli dedicò le sue cure a questa cappella, alla quale offriva il suo aiuto pecuniario, anche prima di essere chiamato a Roma.

A lui, è dovuta la costruzione di questa cappella, oper dir megliofu lui che ne sostenne le spese, poiché la costruzione di essa, come delle altre, era già stata stabilita fino dall'epoca della stipulazione del contratto con l'architetto Marchisi. Del contributo pecuniario portato da Benedetto Valenti non abbiamo memoria nei libri che ci restano dell'archivio dalle «Lagrime». Ma è lo stesso Valenti che ce ne dà la sicura notizia, come tra poco dirò.

Non contento di aver provveduto a ciò egli ottenne anche dal papa Clemente VII, per mezzo del cardinale Ascanio Della Corgna di Perugia, un breve in data 25 Aprile 1530 col quale si concedeva a questa cappella il privilegio di alcune indulgenze. L'originale del breve, adorno di eleganti miniature, si conserva nell'archivio «delle 3 chiavi» del nostro comune(1).

Quando Benedetto Valenti fece il suo ultimo testamento, rivolse il suo memore pensiero a questa cappella, che tanto aveva a cuore, e lasciò ad essa una «chiusa» di olivi del valore di 50 «fiorini»; con obbligo ai Lateranensi di tenere accesa una lampada dinanzi a quell'altare, dall'alba del Sabato al vespero della Domenica; e altrettanto in tutte le vigilie e feste della Madonna. In caso d'inadempienza, il legato passava «ipso facto» alla chiesa ed al convento di S. Francesco di Trevi(2). Dallo stesso testamento sappiamo che la cappella s'intitolava «della Resurrezione».

 

 

 

* * *

Architettonicamente richiama il disegno delle altre cinque.(Fig. 35). Il prospetto è fiancheggiato da due lesène, che sostengono

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(1) Archivio delle 3 chiavi Trevi. N° 235. Altra copia in carta comune, ma egualmente miniata, in Archivio Valenti  —  Memorie generali delle famiglie Valenti, To. VIII°.

(2) Rogito del notaio Livio Mari di Trevi, in data 11 Ottobre 1533. Copia in Archivio Valenti. Memorie etc. To. VIII°.


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il fregio. Sopra di questo è il cornicione a dentelli. La decorazione, però di questa cappella è talmente originale, e così diversa da quella delle altre cappelle, che merita qui una speciale descrizione, come sul posto richiama vivamente l'attenzione del visitatore.

Le lesène laterali sono decorate da candeliere, formate da una serie di dischi o patère, che sorgono da un tripode e sono separate tra loro da eleganti sostegni. Su ciascuno dei dischi sono figure di ginnasti, in atteggiamenti armonicamente ideati, che danno all'insieme un'impronta originalissima. Peccato che anche qui si rivedano e si propaghino i danni recati dall'umidità.

Sull'ultimo dei dischi, al sommo della «candeliera», ardono in cerchio le luminose fiammelle, che giustificano e spiegano l'appellativo di essa.

Ho detto «originale» questa decorazione. Ma lo è veramente?


Fig. 35 - Cappella della resurrezione

 

Se si tiene dinanzi agli occhi l'ornamentazione, che, con grande talento e con fine gusto d'artista, Luca Signorelli ideò per gli stipiti della porta della sua «cappella nuova» nel duomo d'Orvieto, parrebbe che l'anonimo autore delle nostre pitture avesse dall'opera del Signorelli tratto ispirazione e partito. Non forse un plagio, né una copia; ma certo un riflesso assai palese noi vediamo in questa decorazione trevana, in confronto di quella di Orvieto.(Fig: 36). Posteriore la nostra (Fig: 37), non può lasciar dubbio sulle intenzioni dell'artista. E può dirsi che esso sia stato abbastanza felice in questa sua, dirò così, reminiscenza, per quanto resti a grande distanza dal Signorelli. Poiché questi dava alle figure appollaiate sui vari ripiani delle sue candeliere, espressioni e pose appropriate ad esse figure, che erano di dannati e di «spiritelli» ossia demoni; quelli da questi tormentati e in atteggiamenti talora grotteschi, talora feroci. Ma le piccole figure sono sempre fortemente disegnate e solidamente costruite; ed il tutto armonizzato alla decorazione della cappella, nella quale dannati e demoni troviamo a profusione.

Non altrettanto potrei dire delle figure che abbiamo qui; poiché ad esse manca un carattere loro proprio, né hanno alcun rapporto con la rimanente decorazione della cappella. Il disegno di esse, pur non essendo quello robusto del Signorelli, ci dà però una buona idea della genialità dell'artista, che nella varietà delle pose e dei gruppi, ha saputo trovare motivi di decorazione non stucchevole, né volgare. Ed io non saprei dargli torto di essersi ispirato al grande maestro. Così si facesse ora da chi i grandi maestri ostenta avere «in gran dispitto»; e, folleggiando intorno ad ideali artistici, che arte non sono, pretende scuoprire nuovi orizzonti, che per coloro


Fig. 36 - Candeliera del Duomo di Orvieto

(Luca Signorelli)

Fig. 37 -Candeliera della  Cappella della Resurrezione

(Orazio Alfani)


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che ai grandi maestri rivolgono gli occhi e la mente, sono, invece, foschia e tenebre. E mi si perdoni l'apparente digressione.f

* * *

Ai fianchi dell'arco, su fondo decorato a finto mosaico ed arabeschi, erano in due tondi gli stemmi di un cardinale dei Medici e quello della sua famiglia, come nel mezzo dell'archivolto vediamo gli avanzi di un grande stemma(li Clemente VII, anch'esso de' Medici, sotto il pontificato del quale la cappella fu decorata. Manon so in quale epoca, forse durante l'occupazione francese al principio del secolo XIX questi stemmi furono barbaramente abrasi; onde appena se ne possono scorgere le tracce.

Sul fregio, a fondo azzurro d'oltre mare, era visibile un tempo la seguente iscrizione:

 

B. DE. VALENTIB. TREBIAS. ROMAN. CIVIS V. CENS. INTER.P. APLICI. FISCI CAUS. PRATOR. SACELLUM. HOC. SIBI. POSTERITATIQUE. SUAE. AERE. PROPRIO. EXEDIFICAVIT. A. D. MDXXX.

Ai lati erano due piccoli stemmi della famiglia del donatore.

L'interno della cappella è diviso orizzontalmente in due scomparti per mezzo di una cornice ad ovoli e fogliami. Al di sopra è la lunetta, dove è raffigurata la scena della Resurrezione di Cristo.

Sull'orlo della tomba scoperchiata s'erge maestosa la figura del Redentore risorto, avvolto nel lenzuolo sepolcrale: bianco con fregio d'oro ai lembi. Il fianco destro del Cristo è scoperto, a mostrare la ferita del costato. E, mentre la mano diritta s'alza a benedire, la sinistra sorregge il candido vessillo crociato. Ai quattro lati del sepolcro sono le guardie.

Due di esse non si sono avvedute del miracolo e continuano a dormire tranquille. Ma le altre due si sono destate e, mentre quella di sinistra è in atto di fuggire, quella di destra non può fare altrettanto, perché nello spavento del sùbito risveglio, si è trovata col capo affondato nell'elmo, che le è disceso fino alle spalle; onde sembra durar fatica a liberare con ambo le mani il capo da quell'impaccio! il pittore qui ha voluto scherzare!

A questa scena fa sfondo una campagna ideale, decorata di alberi dalla chioma tondeggiante, all'uso del Perugino.

 

* * *

E qui è giunto il momento di accennare al nome del presunto autore di questa decorazione. Tutti coloro che hanno parlato della


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nostra chiesa, attribuiscono tali pitture ad Orazio di Domenico Alfani, da Perugia; uno dei buoni allievi del Vannucci. Per quante ricerche io abbia fatte negli archivi trevani, non mi è stato possibile trovare alcun documento che valesse a confermare in modo definitivo l'attribuzione fin qui accettata. Devo, dunque, anch'io contentarmi di ritenere l'Alfani come autore di questi affreschi; tanto più che, e per l'epoca in cui furon eseguiti e per i molti rapporti di somiglianza e di tecnica che essi hanno con altre opere indubbiamente sue, l'attribuzione può dirsi ragionevolmente fondata.

Ed a questi argomenti diretti ne aggiungerei un altro non meno persuasivo, cioè la reminiscenza palese che in quest'opera dell'Alfani troviamo del modo come lo stesso soggetto della Resurrezione fu trattato dal maestro suo, Pietro Perugino, nella tavola che è agli Uffizi di Firenze. Anche in questa il Cristo risorto è in piedi sull'orlo del sepolcro scoperchiato; è sull'orlo anteriore, mentre in questo dell'Alfani è su quello posteriore; ma è lieve differenza.

Anche l'atteggiamento del Redentore è quasi identico.

Anche lì, quattro guardie sono intorno alla tomba. La prima a sinistra, in secondo piano, si è destata e fugge; mentre quella a destra dorme ed ha il capo poggiato sul palmo della mano. Si osservi l'affresco dell'Alfani e si vedranno i molti punti di contatto.

E come il Peruginospecialmente nella tarda etàsi ripeteva nelle riproduzioni degli stessi soggetti, così troviamo uguali, o quasi uguali reminiscenze e nella Resurrezione della Pinacoteca Vaticana ed in quella che è in una predella di altare nel museo di Monaco di Baviera. Il paesaggio che fa fondo al quadro, persino la forma degli alberi, come dicevo, trovano riscontro e somiglianza nell'opera dei due artisti.

Devo però far notare che, se questi affreschi sono in realtà opera di Orazio Alfani, bisogna dire che egli li conducesse a termine in età giovanissima. Poiché si sa che l'Alfani nacque nel 1510 e fu legittimato da suo padre Domenico nel 1520. Ora occorre ricordare che Benedetto Valenti nel suo testamento dell'11 Ottobre 1533 parla della cappella «della Resurrezione». E l'iscrizione che leggemmo sul fregio della cappella ci dice chiaramente che questa fu costruita nel 1530. Quindi l'Orazio Alfani avrebbe eseguito questi affreschi in età giovanissima: venti anni o poco più.

Può essere questo un argomento per porre in dubbio che egli ne sia l'autore? Non crederei; prima perché questi affreschi non sono di eccezionale valore artistico: onde può intravedervisi l'inesperienza giovanile, sia nell'ingenuità dei mezzi, che nella pedissequa


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imitazione peruginesca; poi perché l'Orazio lavorò sempre insieme al padre suo, Domenico, che al figlio giovinetto fu di guida; come questi, fatto adulto, seguì le orme. paterne, tantoché per molto tempo le sue opere furono confuse con quelle di Domenico, sebbene possano facilmente distinguersi per colorito più debole e disegno più manierato(1).

Di Orazio Alfani dà un parere assai lusinghiero il Lanzi che lo dice uno dei pittori più somiglianti a Raffaello; ma non certodireiin questi affreschi delle «Lagrime»! Ed aggiunge che la riputazione acquistata dal figlio aveva nociuto al padre, Domenico Alfani; nel senso che la critica attribuiva le opere di questo al figlio, Orazio(2) chesecondo il Burckhardtsarebbe un eclettico. Ma la sua fama — qualunque sia — non si fa certamente più grande per questi affreschi trevani.

Anche il Cavalcaselle crede che Orazio non lavorasse per suo conto, fino a che visse il padre, onde non si può precisare la parte presa da questi e dal figlio nei loro lavori(3). E questa osservazione mi pare abbia uno speciale valore pratico nei riguardi dei nostri affreschi, poiché essi furono dipinti non oltre il 1531; quando, per la giovane età dell'Orazio, più necessaria, e perciò più probabile, fu la collaborazione paterna.

Continuando la descrizione della cappella, osservo che intorno alla lunetta gira una fascia azzurra, sulla quale restano le tracce di una iscrizione, così:
 

SICUT. DOMINUS. DEVICTA MORTE. RESURREXIT.
.... OIUM. RESURRECTIO. ERIT.

Ai lati dello stemma di Clemente VII, che, come dissi, occupa la parte centrale dell'archivolto, sono le figure sedute, a grandezza quasi naturale, di due Sibille: l'Eritrea, a mano manca, che in atto ispirato tiene sul ginocchio sinistro una tabella con le parole:

 

ET. MORTE. MORIETUR. TRIBUS. DIEBUS. SOMNO. SUSCEPTO.

 

Sulla base dove poggia i piedi si legge il motto:

 

PRIMO. RESURRECTIONIS. PRINCIPIO. REVOCATUS. OSTENSO.

 

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(1) Umberto Gnoli. Pittori e miniatori nell'Umbria, Spoleto, Argentieri, 1923, pag. 21. Lo Gnoli, però non fa cenno di questi lavori trevani dell'Alfani, né sotto il nome di Orazio, né sotto quello di Domenico.

(2) P. Mezzanotte. Della vita e delle opere di Pietro Vannucci, Perugia, Bartelli, 1836, pag. 26.

(3) Cavalcaselle & Crowe. Op. Cit. pag. 171.


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E sotto alla figura è il nome:

SIBILLA ERITHREA

A destra è la Sibilla Agrippa, in atteggiamento quasi uguale, con la scritta ai suoi piedi:

 

INVISIBILE. VERBUM. PALPAT. ET. GERMINABI'T. UT. RADIX. ET
SICCABIT. UT. FOLIUM. ET. NO. APPAREBIT. VENUSTAS. EIUS.
SIBILLA AGRIPPA

 

* * *

Mi si permetta, senza divagare di molto dall'argomento, qualche breve cenno illustrativo su questa figurazione delle Sibille; tanto più che potrà essere utile anche per le altre simili imagini, che osserveremo tra poco in questa stessa chiesa.

E mi soffermo sù tale argomento per il solo fatto che, fino ad ora, nessuno degli st udiosi — pochi a dir vero — che si sono occupati dell'iconografia delle Sibille, ha mai fatto menzione di quelle che qui troviamo raffigurate in così notevole numero.

Le Sibille, che taluni ritenevano ispirate da Dio, altri dal demonio [ nel testo: dedomio, ndr] emettevano responsi e profezie, alle quali si attribuiva nei primi secoli il valore probatorio di una testimonianza indiscussa. Di esse si ha memoria fino al II. e III. secolo dopo Cristo. Ma è notevole il fatto, che prima dell'èra cristiana, anzi prima del basso medio evo, le Sibille mai fossero state oggetto di figurazioni artistiche. Invece alla fine del medio evo ed al principio del rinascimento, furono dipinte, scolpite, incise, specialmente nelle chiese e nei libri di devozione. Poiché anche la Chiesa romana ammette che siano esistite: Teste David cum Sybilla, è detto nel «Dies irae» di fra Tommaso da Celano.

Poco alla volta, le Sibille furono quasi glorificate dall'arte, che le collocava in un posto d'onore, tra i profeti e gli apostoli, trascrivendo o condensando in poche parole ciò che esse avrebbero detto nei loro oracoli, che potesse riferirsi al Redentore.

Non si sa con precisione quante siano state le Sibille. Forse dieci; forse più. La più celebre era appunto la Sibilla Eritrea, che vediamo qui dipinta. Essa ebbe tale nome da quello dell'isola di Éritra o Eritrea, nell'arcipelago Ionico, dove anche furono trovate le sue profezie(1).

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(1) Barbier De Montault X. Iconographie des Sybilles, in «Revue de l'Art Chrèien» Treizième, Quatorzième année, Arras-Paris, 1869-70. Pag: 214 ss. Rossi Angelina. Le Sibille nelle arti figurative italiane, in: L'Arte, An: XVIII, fase: 5-6. Cfr: anche: Oracula sybilliva etc. a Johanne Opsopaeo colletta notisque illustrata. Parisis, Soc: Typogr. 1599.


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Tra i sommi pittori che onorarono le Sibille con l'arte loro, rammenterò Raffaello, in S. Maria della Pace a Roma; Michelangelo nella cappella Sistina in Vaticano; il Pinturicchio, a S. Maria del Popolo, parimenti a Roma, ed a S. Maria Maggiore di Spello; il Perugino nel Collegio del Cambio a Perugia.

Nulla di più naturale che il pittore che decorò questa nostra cappella cercasse di trarre partito dall'opera di questi sommi e, come essi fecero, accomunasse sulle stesse pareti e profeti e Sibille.

Le scritte che ho riportate più sopra si leggono, con qualche variante anche altrove, attribuite a queste o ad altre Sibille, in molte chiese d'Italia e dell'estero. Alla Sibilla Erìtrea ed alla Tiburtina sono attribuite molte profezie relative a Gesù Cristo, le quali, scritte in versi, furono riprodotte anche da S. Agostino nella sua «Cità di Dio»(1).

I motti sibillini da non confondersi con gli oracoli subirono spesso varianti. Così, ad esempio, quello che qui leggiamo sotto la Sibilla Agrippa è scritto, in altra forma, nelle camere Borgia in Vaticano:

 

INVISIBILE. VERBUM. GERMINABIT. ET. NON. ULTRA. APPAREBIT.
VENUSTAS. CIRCUMDABIT. ALVUS. MATERNE(Sic)

 

E in S. Maria del Popolo a Roma:

INVISIBILE. VERBUM. PALPABITUR.

Parole che, in volgare, sono attribuite alla Sibilla Persica, dipinta in S. Francesco d'Assisi da Giotto:

 

IL. VERBO. INVISIBILE. SI. VEDERÁ ET. SI. TOCCERÁ(sic).

 

 

Mentre il motto che qui è attribuito alla Sibilla Eritrea èattribuito alla Sibilla Cumana nel duomo di Siena, così

ET. MORTIS. FACTUM. FINIET. TRIBUS. DIERUM. SOMNO.SUSCEPTO.

Nel convento di S. Marco a Firenze, nella sala del capitolo, decorata dal beato Angelico, si leggono le identiche parole che troviamo nella nostra cappella. Quelle, invece, che sono sotto alla figura

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(1) Della Città di Dio di Santo Aurelio Agostino. Roma, Tabernieri, 1842, Vol. VII, pag. 157.

 


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della Sibilla Agrippa, si leggono, in parte, stampate anche in un «Libro d'ore» edito nel 1495, da Michele Tolosè ed esistente ora al museo di Cluny, come appresso:

 

INVISIBILE. VERBUM. PALPABITUR. ET. GERMINABIT. UT. RADIX. ET. SICCABITUR.

 

Dovrei ora dire qualche cosa del valore artistico delle figure più sopra descritte. Ma debbo sinceramente riconoscere che si tratta di non belli esemplari. Sono deboli reminiscenze peruginesche, anche più debolmente trattate. L'insieme non è deplorevole; ma, le singole parti non reggono alla critica più elementare. Possono essere tollerate come semplice partito decorativo: ma non oltre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fig.38 - La Pietà (Sebastiano dal Piombo?)

- Pinacoteca Comunale - Trevi [Ora Raccolta d'Arte di S. Francesco]

(Prima del restauro)

 

La parte centrale della parete di fondo di questa cappella era occupata da un'assai pregevole pittura ad olio, su tavola, rappresentante una «Pietà» (Fig: 38) opera attribuita a Sebastiano Luciani,* da Venezia, detto «del Piombo», per avere avuto come tutti sanno dal papa Clemente VII l'ufficio di custode del piombo o sigillo delle bolle pontificie. La tavola aveva subìto nei secoli alquante avarie. A queste fu rimediato con un sapiente restauro eseguito nel 1919 a cura della competente autorià e con l'opera dello illustre artista Prof. Giuseppe Colarieti Tosti.(Fig. 39).

Questa opera d'arte merita un'ampia discussione, che procurerò di condurre sulla guida di autorevoli pareri e di ragionati raffronti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fig.39 - La Pietà(Sebastiano dal Piombo?)

- Pinacoteca Comunale - Trevi (Ora Raccolta d'Arte di S. Francesco)

(Dopo il restauro)

 

L'attribuzione di questo quadro al Del Piombo* risale, per lo meno, ai primi anni del secolo XIX. Il primo a farne parola in una opera a stampa fu il dottore Clemente Bartolini, di Trevi, lo studiosissimo e coscienzioso raccoglitore di memorie patrie, che ho già avuto occasione di nominare. Egli, però sembra non accettasse senza discussione questa ipotesi; e riferiva anche l'opinione di altri che non al Del Piombo,* ma a qualcuno dei suoi allievi dovrebbe attribuirsi la bellissima tavola(1). Di questo dubbio da lui espresso nel 1837 ebbe il Bartolini critiche e rimproveri; da i quali volle dignitosamente e con lealtà difendersi, nonostante che chiaramente avesse scritto che «sempre e generalmente il quadro fu ritenuto opera di Sebastiano»*. Ma, a chiarire l'idea. pochi anni dopo egli scriveva di aver trattato di questo quadro «con troppa leggerezza ed eccessiva circospezione(?)». Ed aggiunge «dopo la pubblicazione di quell'opuscolo ...

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(1) Bartolini Clemente. Cenni storici sulle pitture classiche di Trevi, Foligno, Tomassini, 1837 pag. 18.

Elena Berti Toesca, (in Dedalo XI -1931- pag.1334-1338) lo attribuì al Sodoma, tesi ripresa in E I, s.v. Trevi. La critica più recente la ritiene opera di Benedetto Coda.
In studi recentissimi il dipinto è stato inserito nel corpus delle opere di Benedetto Coda,  pittore attivo a Rimini tra il 1533 e  il  1544, anno della morte. [A. Colombi Ferretti, Dizionario biografico degli artisti, ad vocem Coda, Benedetto, in La pittura in Italia- Il Cinquecento, Vol. II, Milano, pp. 682-683]; [S. Tumidei, Marco Palamezzano (1459-1539). Pittura e prospettiva nelle Romane, in Marco Palmezzano, il Rinascimento nelle Romagne, Milano, 2005. p. 46]


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 mi è stato più volte rimproverato di aver messo in dubbio, in certo modo, l'autore del quadro della «Pietà» che valentissimi artisti, anche nei giorni scorsi riconobbero per un capolavoro di Sebastiano del Piombo. Io non sono pittore di professione, né posso decidere in verun modo questa contesa. Come scrittore di cose patrie aveva più che mai bisogno di ben ponderare e limitare i miei giudizi, per non inciampare in quel ridicolo che tocca sovente ai(sic) scrittori della mia sfera. Se, pertanto, quel bel quadro è di fra Sebastiano realmente, come lo vuole costante tradizione del paese, ne sono contentissimo per la mia parte. Se poi fosse, invece, di qualcuno dei migliori suoi allievi, pur converrà contentarsene, essendo sempre degno di Clemente VII che lo donò a Monsignor(?) Valenti e del prelato(?) che ne fé dono a questa cappella»(1).

Ho voluto riportare testualmente le inedite parole del Bartolini — quantunque l'ultima parte di esse sia poco conclusiva — prima di tutto per dimostrare l'importanza che, fino da allora, si annetteva a questo dipinto e le discussioni cui dava luogo tra intendenti ed amatori di cose d'arte; in secondo luogo per dar lode al Bartolini — che fu cittadino esemplare — per la modestia e remissività sua. «Io non sono pittore di professione — egli dice — né posso «decidere in verun modo di questa contesa». A parer mio, il Bartolini ci dà un esempio prezioso. Ed io sono ben lieto d'imitarlo — per quanto posso — ripetendo che neanche io sono pittore, né per quello che di cose d'arte ho procurato di apprendere, mi credo autorizzato a dar pareri che vogliano aver l'aria di presuntuose sen-tenze inappellabili. Ma non per questo intendo dispensarmi dal fare su questo dipinto quelle considerazioni che un accurato esame di esso suggerisce.
Le dimensioni della tavola, racchiusa in elegante cornice architettonica dell'epoca, sono di m: 1,15 x 0,90. Ma in sì breve spazio l'artista ha genialmente saputo comporre un armonico gruppo di dieci figure, tutte magistralmente condotte, nonostante che delle quattro teste che sono aggruppate nell'angolo superiore a destra, una sola si vegga per intiero, mentre nasconde la metà del viso di

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(1) C. B. Saggio dell'epigrafia di Trevi, ms. inedito, 1840, in Archivio «delle 3 chiavi». Trevi — N° 174, pag. 26 t.


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colui che le sta dappresso. La terza si mostra di scorcio, e la quarta è solo in parte visibile.
Ma le figure principali per correttezza di disegno, per efficacia di espressione sono veramente ammirevoli. La figura del Cristo morto ha l'abbandono inerte del corpo esanime, onde sono giustificati e spiegati la sollecitudine e lo sforzo di coloro che lo sorreggono. Impressionante è la «maschera» del Cristo, (Fig. 40) nella quale sembra di rivedere tutti gli strazi che furono la sua crudele passione.
Veramente pietoso è l’atteggiamento della Madonna, che, mentre passa la sua mano sinistra sotto l'ascella del Figlio morto e con la destra ne sostiene l'omero, inclina mestamente il suo capo materno e socchiude gli occhi, nell'espressione di chi non ha più lagrime.
Affettuosa e memore è la figura della Maddalena, che sorregge il braccio sinistro del Redentore, e sembra voglia baciare commossa la mano cascante. Questa figura è degna di attenzione anche per una speciale nota, come di mondanità, che — in mezzo alle altre così devote — sembra averle voluto il pittore imprimere, sia nel vestire, che nell'acconciatura dei capelli e nell'espressione, come nel colorito vivace del viso bellissimo, che fa strano contrasto con l'intonazione quasi terrea e funebre di tutti gli altri.
Sul lato sinistro della tavola, al di qua della Madonna, sono tre figure virili. Quella nel mezzo, al disopra del Cristo, ha tutta l’aria di essere un ritratto; forse del committente; come l'ultima testa a sinistra ricorda molto le fattezze dell'immortale Michelangelo. Tutte e tre queste teste sono condotte con scrupolosa coscienza ed il disegno ne è accuratissimo, come ben adatte al tragico momento sono le espressioni dei volti.
Sotto il punto di vista della tecnica osserverei che il colorito non è in questo quadro così vivo, come in altre opere che certamente sono di Sebastiano del Piombo. Anche la parsimonia del colore che ha poco «corpo» merita di essere osservata; talmente che se ne può avere l'impressione di trovarsi dinanzi ad una tempera, anziché ad una pittura ad olio(1).

 

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Sta in fatto che tutti gli scrittori che si sono — anche recentemente — occupati dalla nostra chiesa o della pinacoteca trevana, dove il quadro attualmente si trova, hanno ripetuta e confermata la tradizione

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(1) Di questo quadro esiste una eccellente copia seicentesca ad olio, su tela, un poco annerita, presso la famiglia Fratini Zucconi, a  Lapigge, frazione di Trevi.

 


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che attribuisce al Del Piombo questo dipinto. Così il Guardabassi, il Faloci Pulignani, l'Angelini Rota, il Bragazzi ed altri minori. Aggiungo che gli elenchi ufficiali delle opere d'arte del nostro comune, redatti fino dal 1869, hanno accennato al Del Piombo come presunto autore di questo quadro (1).
Da notare che né il Giorgetti, né il Natalucci — più volte citati — che scrivevano nella seconda metà del V700 fanno alcun cenno dell'autore di questa «Pietà». E ciò conferma la mia ipotesi che l'attribuzione al Del Piombo risalga ai primi dell'800. Da allora in poi anche i compilatori di dizionari biografici di artisti italiani hanno ripetuta la cosa, compresi i più recenti. Ma a queste fonti non attribuirei un'eccessiva importanza, trattandosi per lo più di opere, per quanto coscienziose, pure redatte sulla falsariga di quelle già pubblicate in antecedenza, e mancando in esse ogni accenno di critica e — molto più — di documentazione (2).

Non posso però lasciare inosservato il fatto che di tutto ciò non hanno tenuto conto i valentissimi scrittori che sul Del Piombo hanno pubblicato importanti monografie. Ricordo tra questi il Propping(3), il D'Achiardi(4) il Bernardini(5).

Nessuno di questi tre che pure di Sebastiano hanno studiato con diligenza la vita e le opere nessuno, dico, ha creduto far menzione della tavola di Trevi. Bisogna, quindi, supporre che nessuno dei tre scrittori ricordati conoscesse questa «Pietà» e che a tutti fosse sfuggito il poco che di essa si era scritto.

E così èdi fatto.

Il D'Achiardi, in specie, che oltre alle opere certe di Sebastiano, enumera anche diligentemente quelle che è dubbio siano di lui e quelle che a lui sono attribuite erroneamente, non fa il minimo cenno di questa di Trevi. E altrettanto il Bernardini.

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(1) La tavola è così descritta nell'«Inventario»: «Pittura in tavola ad olio. Rappresenta il seppellimento di Cristo. Oltre il morto Redentore vi ha(sic) la Vergine, Giuseppe d'Arimatea, ed altre figure; in tutte N° 10. Misura in altezza m. 0,90; in larghezza in. 1,15. Si dice di scuola lombarda, ma ignorasi l'autore. Taluni l'attribuiscono a Fra Sebastiano del Piombo. Molto deperita. Dicesi donata da Clemente XII(sic! ) a Mons:(?) Benedetto Valenti»:(Archivio comunale di Trevi).

(2) Andrea Corna. Dizionario della storia dell'arte in Italia, Piacenza, Tarantola, s. a. pag. 331. Bessone Aureli Antonietta Maria. Dizionario dei pittori italiani, Città di Castello, 1915; pag. 225.

(3) Propping. Sebastian Del Piombo. Leipzig, 1892.

(4) D'Achiardi Pietro. Sebastiano Del Piombo. Roma, «L'Arte» 1908.

(5) Bernardini Giorgio.      »              »           »         Bergamo, Arti grafiche, 1905.


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Inutile indagare come ciò sia avvenuto; il fatto sussiste: non cercherei di più Ma dell'opera di questi studiosi vorrei valermi, come di ausilio assai prezioso, per cercare una qualche nuova prova della paternità che si è voluta attribuire a questo dipinto.

 

* * *

Ma prima di tutto, un poco di storia.

Gli autori delle «Guide» di Spoleto, di Foligno e dintorni, e prima di essi il Giorgetti e il Natalucci e il Bartolini hanno stampato ripetutamente, uno dopo l'altro la stessa notizia, che, cioè questo quadro fu donato a Benedetto Valenti dal papa Clemente VII(1). Anzi, per la verità il Bragazzi scriveva averlo il Valenti avuto da Clemente XII(2). L'errore è madornale; ma con tutto ciò fu, in perfetta buona fede, ripetuto anche da altri, che affidatisi completamente alle parole del Bragazzi, non credettero necessario controllarne l'esattezza.

Ma anche a prescindere da questi errori la verità si è che non fu Clemente VII a dare in dono a Benedetto Valenti questo quadro. Fu, invece, la Camera apostolica. E non è esattamente la stessa cosa.

Nessuno poi ha, mai saputo che questa pittura così pietosa, ha una storia tragica. E' lo stesso Benedetto Valenti che la racconta nelle sue «Memorie» inedite. Esso scrive:

«La reverenda, Camera apostolica del dicto anno 1531, essendo stata justitiata una donna che teniva camera locanda in Borgo, per havere admazato uno in casa sua et pnblicati tucti soi beni, me donò uno callidissima(3) cona( = icona) in tavola, la quale ò determinato mandarla ad S. Maria delle Lacrime de Trevij, in la mia altare novamente facta(sic) in dicta ecclesia»(4).

Questo documento, pur nella sua brevità, mi sembra di grande importanza e di non comune interesse, per la storia della nostra

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(1) M. Floci Pulignani. Guida di Foligno e dintorni, ivi, Campitelli, 1900, pag. 149. G. Angelini Rota. Guida di Spoleto e dintorni, ivi, Panetto & Petrelli, 1917. pag. 150. G. Bragazzi. La Rosa dell'Umbria, Foligno, Tomassini, 1864 pag. 202. Giorgetti. Op. Cit. pag. 33. Natalucci D. Ms. cit. pag. 242.

(2) Bragazzi. Op. Cit. pag. 202.

(3) Richiamo l'attenzione dei filologi su questa parola di nuovo conio. Il Valenti ha inteso certamente fabbricare un superlativo del greco χαλός (bello) e gliene è venuto fuori un vocabolo ibrido, che, per di più, significa tutt'altra cosa!(callidissimus = astutissimo).

(4) Archivio delle 3 chiavi - Trevi - N° 263 - f. 12t.

 


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chiesa e specialmente del dipinto di cui ora mi occupo. Prima di tutto, esso ci dice come e quando e da chi il quadro fu ceduto a Benedetto Valenti e come da questi fu destinato alla nostra chiesa. In secondo luogo esso ci permette di stabilire con precisione il limite massimo dell'epoca in cui il quadro fu dipinto; cioè non oltre il 1531. E, se resta vera l'attribuzione a Sebastiano del Piombo, si può affermare che la tavola è opera della sua più fresca et Circostanza che occorre tener presente, per ciò che in appresso avrò occasione di mettere in evidenza.

Oltre di che, speravo che questo documento potesse essere il filo conduttore per rintracciare l'autore certo del quadro. Infatti, nella ipotesi che del dono fatto al Valenti dovesse trovarsi memoria negli atti della Camera apostolica, ho diligentemente esaminati tutti i Registri di essa, riferentisi a quell'epoca; e cioè i Decreti, i Mandati e i Libri d'introiti ed esiti nell'Archivio di Stato di Roma; nonché i numerosissimi volumi (piùdi 90) degli atti diversi della Camera apostolica nell'Archivio segreto Vaticano per il periodo 1528-1541, in cui il Valenti esercitò il suo ufficio di Procuratore Fiscale.

Ma le mie ricerche non hanno dato il frutto che ne speravo; poiché mentre ho trovato un cumulo enorme di atti e documenti che si riferiscono a lui personalmente, nulla ho potuto rintracciare che valesse a dar lume nella particolare questione dell'autore di questa nostra «Pietà». Vorrei augurarmi che altri possa essere più fortunato, praticando nuove ricerche negli atti della Camera apostolica, che potessero per avventura trovarsi presso altri archivi in Roma od altrove.

Resterebbe a parlare del truce delitto a cagione del quale la nostra chiesa si è arricchita di così pregevole opera d'arte. Ma potrebbe, forse, l'argomento sembrare troppo estraneo al soggetto principale; onde non reputo opportuno intrattenermici; tanto più che di ciò spero poter diffusamente trattare in altro mio scritto sul Procuratore Fiscale Benedetto Valenti. Però, per non passare del tutto sotto silenzio questo episodio, dirò che il Valenti, nella sua qualifica, aveva diritto, oltre che al suo «salario» mensile, ad una compartecipazione variante dal 5 all'1 per cento sui proventi delle pene pecuniarie e sul valore dei beni confiscati ai condannati.

La donna di cui egli ha lasciato memoria, esercitava in Roma, e precisamente in Borgo S. Angelo, il mestiere di locandiera, e fu condannata a morte per aver ucciso un suo avventore. I beni di lei furono confiscati e sul valore di questi spettava al Valenti la solita percentuale.


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Dobbiamo supporre che quella sciaguratissima donna non possedesse gran che di beni; onde per semplificare la liquidazione dei diritti del Fiscale, la Camera apostolica gli ·«donò» com'egli dice questa tavola. Ma il lettore ha già veduto che non si trattava di un «dono» vero e proprio; ma di un compenso che al Valenti spettava per l'opera da lui prestata [nel testo: prestasta] a carico di quella donna. Piccole e secondarie circostanze queste; ma che non ho voluto trascurare, perché risultano da documenti inoppugnabili e perché possono contribuire a dar lume anche sù certe particolari procedure penali di quei tempi.

Aggiungerei che la Camera apostolica, dando al Valenti questa opera d'arte sapeva, forse, di fargli cosa assai gradita, poich[ egli fu anche un raccoglitore di simili oggetti.

Donde poi provenisse quel quadro, non sappiamo. Né posso dire, perciò se la Camera apostolica ne fosse venuta in possesso per averlo trovato cosa non molto probabile tra i mobili confiscati alla donna giustiziata, o se, invece, fosse pervenuto alla Camera apostolica dagli «spogli» o dalla eredità di qualche cardinale, di qualche prelato. In mancanza di documenti non mi sembra utile perdermi in ipotesi poco interessanti, perché non dimostrabili.

 

* * *

Nessun documento, dunque, è venuto, finora, a confermare la fondatezza della attribuzione di questa tavola al Del Piombo. Come, allora, giustificarla? Perché non è assolutamente presumibile che l'opinione degl'intendenti non abbia un qualche fondamento di verità, o, per lo meno, di verosimiglianza.

Se in questa, tavola non troviamo la vivacità e la freschezza del colorito che Sebastiano aveva appreso dal Giorgione suo maestro, dobbiamo, però riconoscere che, per quanto riguarda la composizione, la tavola di Trevi ha molti punti di contatto con altre opere simili di Sebastiano del Piombo, che trattò più volte questo stesso soggetto. Così nella «Piet» che è a Londra nella collezione Layard si vede pure il Cristo morto, col braccio destro abbandonato e cadente in basso, presso a poco come nel quadro di Trevi. E vicino al Cristo è ripetuta la figura del vecchio col turbante, come nella nostra tavola.

E, per quanto riguarda il colore, se in altri suoi quadri, e specialmente nei ritratti magnifici, il Del Piombo fu più forte e più vario, l'intonazione meno gaia della tavola trevana, trova, a parer mio, un qualche raffronto nelle pitture ad olio ed a fresco che il


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Del Piombo eseguì su disegni di Michelangelo Buonarroti, nella cappella della Flagellazione in S. Pietro in Montorio, a Roma.

Altri volle molto insistentemente avvicinare l'opera di Sebastiano Del Piombo a quella di Jacopo Bassano(1), fino al punto di porre il quesito se a questi possa essere attribuita una «Pietà» che è a Viterbo e che finora, è stata detta di Sebastiano Del Piombo. E questo dubbio viene affacciato soltanto per una certa relazione che si nota tra la figura della pia donna nella «Deposizione dalla croce» in S. Luca di Crosara (Bassano) e quella della «Vergine che tragicamente si leva, nella solitudine della campagna, nella «Pietà» di Sebastiano del Piombo a Viterbo».

Ora da questo ragionamento vorrei dedurre che, se può bastare un così secondario particolare per mettere in dubbio la paternità di un dipinto, molto più valore possono avere io credo  i ripetuti raffronti che tra le opere di Sebastiano si possono fare, onde trarre nuova conferma o almeno nuova giustificazione alla secolare tradizione che vede in lui l'autore della pregevolissima nostra tavola. Tanto più che alcune opere, anche recentissime, di scrittori e di critici tali riavvicinamenti rendono possibili e dimostrabili.

Così Lionello Venturi trova che «il colore unito è una delle caratteristiche della prima maniera di Sebastiano del Piombo». E, come nella «Pietà» della collezione Layard così in questa di Trevi osserverei  mancano «la luce capricciosa, le chiazze luminose, le pennellate alla brava. La sua divisa era: prima di tutto e sopra tutto il movimento. L'ambiente è trascurato. Le figure occupano nello spazio la parte maggiore possibile».

Non pare che il Venturi parli della nostra «Pietà»? Anche qui «l'ambiente» manca. Pochi centimetri quadrati di fondo, e basta. Il resto è tutto occupato dalle figure.

E come tecnica il Venturi osserva che «L'adultera» è dipinta col sistema improvvisatore del fresco. «Falsa strada», nota il Venturi.

E non potrebbe essere, allora, questo di Trevi un lavoro del Luciani quando appunto batteva questa «falsa strada»? Non dissi già che a prima vista questo quadro dà l'impressione che non sia dipinto ad olio?

Oltre a ciò nella Pinacoteca di Stuttgart si ammira un'altra

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(1) Giulio Lorenzetti. Della giovinezza artistica di Jacopo Bassano, in «L'Arte», Anno XIV°, 1911, Fasc. II e IV, pag. 246.


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«
Pietà» che è ritenuta opera di Sebastiano del Piombo. E anche lì le figure sono numerose sei in poco spazio il Cristo è nel mezzo, e la sua mano sinistra è pietosamente sorretta da S. Giovanni, come in questa di Trevi dalla Maddalena. Le mani e le dita sono lunghe e sottili in ambedue i dipinti(1).

Un altro scrittore di cose d'arte Luigi Viardot nota, tra le caratteristiche del nostro, il colorito scuro(sombre) e le carnagioni mulatte delle figure(2). Chi ha veduto l'originale della «Pietà» di Trevi può confermare di aver riscontrato in essa appunto queste speciali qualità.

E  — a proposito del colorito il D'Achiardi che ha studiato il Del Piombo con tanto acume e competenza, parlando delle pitture del nostro nella cappella Borgherini a S. Piero in Montorio, osserva giustamente che lì il pittore «dimentica la sua natura veneziana ed ogni piacevolezza nella colorazione è sostituita dallo studio accurato del disegno, del modellato, del chiaroscuro, con uno stile che è qualche cosa di mezzo fra il romano e il fiorentino, fra il raffaelesco e il michelangiolesco»(3).

Ora, anche in questa nostra «Pietà» notiamo il tono opaco, uniforme quasi, senza «piacevolezza»; ma il disegno è accurato, solida la costruzione delle figure, la modellatura e l'anatomia seriamente e coscienziosamente studiate. Le teste sono tutte caratteristiche ed atteggiate ad una espressione di dolore, come vuole il soggetto. Talune di esse hanno l'apparenza di essere dei veri e propri ritratti; come la prima figura a sinistra, dove colpisce dissi già  — la somiglianza con la pittoresca testa del Buonarroti, che del Luciani fu amico e confidente; a parte le inevitabili dispute, così frequenti anche tra quei sommi. Non vorrei esagerare l'importanza di questo particolare; ma non potrebbe essere questo un argomento di più a sostegno dell'attribuzione del nostro quadro al Del Piombo?

Un altro scrittore Teodoro Guedy trova tra le caratteristiche del nostro l'esagerazione nella lunghezza delle mani(4). E questa è appunto una delle note salienti della «Pietà» che abbiamo sott'occhio.

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(1) Lionello Venturi. Giorgione e il giorgionismo. Milano, Hoepli, 1913 pagg. 153-168.

(2) Louis Viardot, Le merveilles de la peinture, Paris, Hachette, 1881 pag.298

(3) Op. cit. pag. 161.

(4) Thedore Guedy. Diclionnaire des peintres. Paris, 1882.


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Ma, prima di decidermi a trattare come meglio potevo questo argomento, sentivo che, oltre che dai giudizi scritti, grande aiuto mi sarebbe venuto dal parere anche verbale di critici coscenziosi. E fu così che all'illustre D'Achiardi celebrato autore di magnifiche opere di soggetto artisticovolli chiedere personalmente (2 giugno 1923) un giudizio. su questa «Pietà».

Nella sua grande cortesia egli, pur riconoscendo di non aver avuto occasione di leggere ciòche su questo dipinto era stato scritto, mi diceva che l'attribuzione al Del Piombo sembra ragionevole e verosimile, per quanto può giudicarsi da una riproduzione fotografica. Ma per un definitivo e più fondato parere, riconobbe essere necessario l'esame dell'originale.

Una fortunata circostanza, mi permetteva di sentire in proposito la parola di Corrado Ricci, grande benemerito della storia dell'arte italiana. Egli, però esaminata a lungo la fotografia — pur facendo anche esso ogni riserva per uno studio sull'originale, — esprimeva il parere che l'attribuzione al Del Piombo non fosse giustificata.

«Sembra il lavoro di un eclettico — mi diceva — non di Sebastiano. La testa del Cristo può aver dato occasione e motivo alla attribuzione fin qui accettata. Ma il Del Piombo è un colosso di pittore: e qui non abbiamo, per esempio, le caratteristiche di quel grandioso quadro della «Resurrezione di Lazzaro» della Galleria nazionale di Londra, che il Del Piombo dipinse in concorrenza della «Trasfigurazione» di Raffaello. può  forse, pensarsi essere questa di Trevi l'opera di un imitatore del Del Piombo o di uno che si è ispirato ai suoi lavori».

Questo il parere di Corrado Ricci, che io riferisco pressoché «ad literam», per dovere d'imparzialità tanto piùche il dotto uomo aggiungeva: «In ogni modo, fino a nuove indagini, si può lasciar correre la tradizione che fa il Luciani autore di questa tavola».

E di questo parere mostrava di essere anche l'illustre artista Lodovico Pogliaghi, che era presente alla nostra conversazione.(Roma, 25 Giugno 1923).

Il lettore avrà notato che il Ricci accenna alla possibilità che il quadro possa essere opera di un imitatore di Sebastiano. Ora questa supposizione trova un interessante e imprevisto riscontro nell'opinione che esprimeva circa un secolo fa il nostro Clemente Bartolini, come dissi(1). Egli — in verità — propendeva ad attribuire

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(1) Cfr. sopra, pag. 228.


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il quadro ad un «allievo» del Luciani. Ma è noto che questi, — pur essendo un pittore di grande forza — non fu un caposcuola e non ebbe allievi. Tipo di gaudente e di buontempone, lavorava meno che poteva; poche, infatti, sono le opere sue. Il lucroso ufficio conferitogli da Clemente VII lo liberava dall'assillo del bisogno; onde «il frate del piombo badava — più che altro — alla vita buona», come dice il Vasari; e preferiva passare il tempo con la musica, anziché con la pittura. E quantunque, di tanto in tanto, rivaleggiasse con Raffaello e con Michelangelo, pure non volle dedicarsi a fare allievi, contento di vivere degli 800 e più «scudi» che gli rendeva l'ufficio «del piombo». Tanto vero che Clemente VII non volle darlo a Benvenuto Cellini, dicendogli: «Se io te lo dessi tu ti attenderesti a grattare il corpo, e quella bell'arte che tu hai alle mane si perderebbe ed io ne harei biasimo»(1).

Ciò dico a dimostrare che l'opera che abbiamo sott'occhio o è del Luciani, come si è creduto fin qui, o di un suo imitatore: non gia di un suo allievo, ché non ne ebbe.

«Egli ebbe, si, non pochi imitatori e seguaci, ma per breve volger di anni... Non rientra nel numero di quegli artisti che hanno determinato col loro esempio la creazione di un dato stile, di una data scuola»(2).

Ma, a sua volta, il Del Piombo era stato allievo di Giovanni Bellini. E «caratteristica di Sebastiano fu la straordinaria attitudine ad imitare, fino dagli anni suoi giovanili, lo stile e la tecnica altrui?(3)».

È sempre il D'Achiardi, competentissimo, che così scrive. Aggiungo che una grande importanza io annetterei nei riguardi della tavola trevana a quest'altro giustissimo giudizio del D'Achiardi: «L'impronta belliniana — egli dice — apparisce senza dubbio, ma più per riflesso che direttamente, nella prima opera a noi nota di Sebastiano Del Piombo: nella «Pietà» di casa Laganà in Venezia».

Ma di questo quadro il D'Achiardi propende a credere che sia copia di una «Pietà» del Cima da Conegliano; mentre lo stesso D'Achiardi vede la derivazione artistica di Sebastiano Del Piombo da Giovanni Bellini nella «Pietà» che ora trovasi nella collezione Layard, a Londra.

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(1) Benvenuto Cellini. Vita, Ed. A. J. Rusconi e A. Valeri. Roma, Soc. ed. nazionale, 1901 pag. 131.

(2) D'Achiardi - op: cit: pag: 2.

(3) d.°  ivi, pag: 3


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Il Vasari ci fa sapere che dal Bellini il Del Piombo non ebbe che i primi principi; ed il D'Achiardi afferma che «non conosciamo con sicurezza alcuna opera veramente belliniana di Sebastiano, il quale ben presto si sentì attratto verso Giorgione da Castelfranco»(1).

Ora — e questo è un mio apprezzamento personale — se nella «Pietà» di casa Laganà ed in quella della collezione Layard può vedersi il riflesso della scuola belliniana, non potrebbe questo riflesso osservarsi anche nella «Pietà» di Trevi, confrontandola con quella di Giovanni Bellini negli Uffizi di Firenze? (Fig: 41) In tutti e due i dipinti il numero delle figure è quasi uguale: otto nella «Pietà» di Firenze; dieci in quella di Trevi. comprese le mezze teste. In ambedue i dipinti le figure principali sono tagliate a metà ed in ambedue tutta la superficie del quadro è occupata da esse; e, per di più  le figure sono aggruppate in maniera che, se non può dirsi identica, è certamente assai simile in tutte e due le pitture. La cosa è talmente evidente che non può  sfuggire neanche ai profani. Chiunque può constatare che la «composizione» — elemento importantissimo — avvicina talmente queste due opere d'arte da fornire, se non una prova, certamente una giustificazione di più a favore della tesi che vuole il Del Piombo autore della tavola trevana. Non potrebbe essere questa l'opera «belliniana»  di Sebastiano della quale finora non avevamo esemplari e che potrebbe servire a completare il ciclo artistico di Del Piombo? L'ipotesi non mi sembra temeraria. Tanto più che — fino ad ora — nessuno ha saputo indicare il nome di un altro pittore al quale attribuire la paternità di questa magnica tavola.

Concludendo: fino a prova contraria, mi sembra possa lasciarsi intatta la tradizione, ormai secolare, che vuole il Del Piombo autore di quest'opera d'arte. Fino a che documenti a noi ora sconosciuti, o critiche fin qui impreviste non verranno a darci nuovi lumi e a fornirci prove attendibili, sarebbe da parte nostra leggerezza grande il demolire quanto — con ragioni che ci sembrano fondate — i passati studiosi delle cose d'arte trevane hanno creduto di poter affermare. Ed è appunto a sostegno di questa loro opinione o, se meglio si vuole, a spiegazione di essa, che io ho cercato di esporre tutti i lati della questione ed istituire tutti gli utili raffronti con altre opere del Luciani, riferendomi ai pareri sù di lui espressi dai critici più autorevoli.

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(1) D'Achiardi. op: cit:, pag: 3.


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 * * *

A completare la descrizione di questa cappella, dirò che la parete alla quale era addossata la piccola tavola della «Pietà» fu coperta da figure decorative, che non sembrerebbero opera dello stesso Alfani, al quale si attribuisce il resto della decorazione. Queste figure sono state in epoca non precisata malamente ritoccate. Un ricco panneggio rosso si stende dietro al quadro e due angeli, metà della grandezza naturale, tengono distesa la stoffa, mentre più in alto altri due piccoli angeli agitano turiboli fumanti.

Due candeliere fiancheggiano la decorazione. Al disotto del quadro furono nel '700 aggiunti certi ornati di infelice gusto barocco, che dovrebbero formare una specie di base alla cornice di semplice ed elegante architettura cinquecentesca, nella quale il quadro è racchiuso.

Questo fu nel 1869 tolto dalla chiesa e collocato nella pinacoteca del comune di Trevi, dove lo videro il Guardabassi e gli altri moderni scrittori che ne hanno parlato. Più tardi — e precisamente nel 1899 — fu riportato nella cappella alle «Lagrime», per deliberazione del consiglio comunale. Però in tempi recentissimi — cioè nel Novembre del 1922 — fu di nuovo rinchiuso nella pinacoteca, in seguito ad un tentativo di furto verificatosi in quel mese nella chiesa.

Ai lati della cappella vediamo: a destra il profeta Giona che esce dalle fauci della balena. Ma bisogna, proprio, dire che il nostro pittore avesse di questo cetaceo un concetto assai poco chiaro! L'ha, infatti, rappresentato come una specie di batracio, del quale si vedono solo due zampe anteriori palmate. E, per di più  la sua mole è di così meschine proporzioni, che anche un ingenuo osservatore vede essere stato impossibile ospitare in essa la persona del profeta!

Ma, a discolpa del pittore nostro, devo osservare che neanche Michelangelo fu molto felice — zoologicamente parlando — quando nella cappella Sistina volle rappresentare lo stesso soggetto. Non solo: ma tutta l'iconografia del profeta Giona sta a dimostrare che i pittori hanno sempre trovata insormontabile la difficoltà di rappresentare la balena in modo verosimile; a cominciare da coloro che dipinsero nelle catacombe romane, dove la storia di Giona — come simbolo di Gesù morto e risorto — ricorre frequentemente. Ma «il mostro che inghiottisce Giona ha sempre la stessa forma bizzarra» — una specie di drago, a coda serpentina — «che non è affatto


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una balena»(1). E la fantasia dei pittori si sbizzarrì anche molti secoli dopo, quando si trattò di rappresentare questo stesso animale(2). Sotto la figura di Giona sono le parole:

 

POST. TERTIAM DIEM. EVOMVIT. ME.
J O N A

 

Al lato sinistro è raffigurato il re e profeta David. Qui il pittoe si è valso di quella ragionevole facoltà di tutto osare, che Orazio riconosceva essere stata sempre concessa ai pittori, come ai poeti. Infatti l'Alfani — posto che sia esso l'autore di questi affreschi — mentre nel dipingere la lunetta si è permesso di scherzare dando ad una delle guardie del sepolcro una posa ridicola o quasi, in questa figurazione del David è stato anche più fantasioso.

È noto che il santo re aveva tra i suoi pregi quello di essere un delicato suonatore di arpa e che, con le sue armonie, placava le ire del fierissimo re Saul. Ora, qui, il pittore bizzarro ha sostituito all'arpa una viola !

L'anacronismo è stridente; ma non per questo deve sembrare eccessivamente strano; e, molto meno, lo si creda una trovata del nostro pittore. Onde a lui né colpa, né merito.

Prima di lui, infatti, Raffaello aveva dipinto in una delle camere del Vaticano la gloria della poesia. Sulla sommità del monte delle Muse, troneggia, ornato di fiori, il giovane Apollo. «Un imitatore schiavo dell'antico avrebbe messo in mano del dio del canto la lira. Non così Raffaello; egli scelse l'istrumento allora in uso — la viola «di braccio»(3) — la quale permetteva un movimento della mano più libero e pittoresco, ed era, in pari tempo, meglio intesa dai contemporanei». Questo anacronismo fu rimproverato a

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(1) Orazio Marucchi. Manuale di archeologia cristiana. Roma, Desclée, 1923, pag. 310. G. Wilpert. Le pitture delle catacombe romane. ivi, 1923, pag. 47, 333 a 501.

(2) Una stampa del Wallerant(1623-1677) (Galleria Corsini. Roma Gabinetto delle stampe N. 85718 ) rappresenta Giona che esce dalla bocca di un enorme animale fantastico, che si volle battezzare per un «pistrice» o pesce sega! Aggiungerei che in tempi recenti si volle affacciare l'ipotesi che, non una balena, ma un pescecane gigantesco, appartenente ad una razza scomparsa, fosse quello che inghiottì il profeta Giona.

(3) La viola, secondo la posizione nella quale si suonava, si chiamava: di braccio, di gamba, di spalla. Vi erano, poi la viola comune, la pomposa e quella di bordone. Le forme attuali del violino e simili rimontano appunto al secolo XVI, nel quale le pitture di cui parlo furono eseguite.


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Raffaello, che l'adoperò anche in altre occasioni nelle medesime stanze vaticane. Così scelsero il violino, invece della lira, anche altri artisti del tempo, come il Pinturicchio e lo Spagna(1).

Merita, dunque, il nostro ogni scusa; ma osserverei che da quei sommi avrebbe avuto ben altro di meglio da imparare e da imitare! Sotto la figura di David si leggono le parole del Profeta Isaia:

 

FODERUNT. MANUS. MEAS. ET. PEDES. MEOS.

DAVID

 

* * *

E qui ha termine la descrizione e la storia delle cappelle che adornano ed arricchiscono la nostra chiesa.

Al lettore che avrà avuto la bontà di seguirmi, spero aver dato con le mie modeste parole una qualche idea delle bellezze artistiche riunite intorno a questi altari, ai quali la fede e la munificenza dei nostri avi vollero — con l'obolo di tutti i cittadini — crescere decoro e splendore.

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(1) L. Pastor. Storia dei papi, cit: Vol. III, pag. 789-90, nota 1.

 

 

 

(Tommaso Valenti, La chiesa monumentale della Madonna delle Lagrime, Roma, Desclée, 1928 - pagg. da 219 a 241)

 

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