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 Tiberio Natalucci

 

Studi sulla storia di Trevi

 

Pubblicati per festeggiare le nozze

dei due giovani sposi

nobili entrambi di animo e di lignaggio

Raffaello Paglioni

di Trevi

Guendalina Toni Catenacci di Amelia

1865

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[Note: Nella trascrizione è stata rispettata l’arcaica punteggiatura originale.
Il testo in colore tra parentesi quadre [ ] è stato aggiunto all'atto della trascrizione.
Tra parentesi acute < > è riportato il numero della pagina.
Le parole divise a fine pagina sono state trascritte per intero nella pagina in cui avevano inizio]

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Lo scrittore prega i suoi rispettati concittadini a non iscorgere in questo povero lavoro che un segno di patrio amore, e un tentativo di ricercare cose vere.

Tiberio Natalucci

Foligno Tip. Campitelli

 

 

 

 

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Sulla vetta e sulle pendici occidentali di uno dei Colli più spiccanti ed ameni che dall’estreme falde del basso Appennino protende ad internarsi quasi nel mezzo della tanto celebrata Valle Umbra sollevasi appariscente la Città di Trevi avente sul capo una verde corona di quercie, faggi, viti ed ornelli, circondata dai suoi duecentomila Olivi, nel mezzo ad un territorio disseminato per ogni dove di case di Villaggi, di antiche castella, rallegrato dalle ridenti rive del sottoposto Clitunno, abbellita da fabbricati prominenti e ragguardevoli, cinta da valide mura e longobardiche torri, non ultima fra le Città Umbre per importanza, e forse la prima per temperato clima, incantevole prospettiva, e salutifere condizioni.

Positure le più favorevoli per poter respingere facilmente le nemiche aggressioni, materiale ottimo da fabbricare, stabilità perfetta del suolo, sorgenti tenui ma perenni, e diverse di eccellente acqua potabile, sicurezza di non soggiacere ai disastri delle inondazioni, ai danni dell’umidità e delle nebbie, ai perniciosi effetti di paludose esalazioni, un terreno in vece aprico formato da materia calcarea alluminea con terra vegetale mirabilmente adatto a ad ottenere la squisitezza di vini, di olii, farine, frutta, carni, latte, selvaggina, salati, erbaggi, vegetazione felice di piante di ogni specie, magnifica vista del rinomato cratere, sono tutti pregi da segnalare facilmente e dar la preferenza a questa su di altre località.

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Non è quindi meraviglia che antichissime genti vi prendessero stanza. Poco lungi dall’odierna Trevi presso ad una limpida sorgiva esisteva un Tempio sacro al più antico Nume d’Italia a quel buon Re Giano che seppe cangiare i ferini costumi di genti selvaggie nella beata età dell'oro. Si ha da  memorie autentiche che fino al 1600 vi si videro i ruderi di una Chiesa cristiana che chiamossi S. Giovanni di Giano e che era stata eretta sulle rovine  di un antico delubro pagano, in cui quella Deità veneravasi; Attraverso di tanti secoli restò ancora al fonte e alla valletta  il nome di Giano, e giunse sino a noi e conservasi in una sala municipale [ora nella Raccolta d’Arte di S. Francesco] una testa di grandezza maggiore del vero scolpita in marmo, avente due faccie simili di uomo barbato, e che formava certamente parte di una Statua ben grande di un Giano bifronte. Se gli Umbri derivano da quella prima immigrazione giapetica che fu trovata già stanziata in Italia (al dir di Erodoto) quando vi giunsero i Lido-tirreni di stirpe semitica, se il Japhet degli Ebrei, il Giapeto dei Greci fu dagl'Italiani adorato col nome di giano, questo culto che Trevi rendeva a quel primitivo Padre, Re e Dio omonimo lo mostrerebbe della più remota antichità.

Di fatti sul vertice dell’antica nostra Città esistette pure un gran Tempio consecrato ad una delle più remote credenze pagane: a Diana. Questa mitica Regina del Cielo, della Terra e dell’Erebo, che aveva il barbarico culto nella Tauride, selvaggio fra i Druidi, gentile in Efeso, questa Dea di tutto, come il nome Diana si crede esprimere, era la Diva tutelare dei Trevani.

Restano ancora ad attestare la grandezza di quella mole due grandi capitelli uno in breccione rossastro del paese e l’altro in pietra calcare senz’abbaco. La proporzione di tali capitelli darebbe alle colonne un’altezza di 12 a 13 metri, e quindi l’edificio era di una grandezza cospicua. Questi due massi furono trovati presso l’attual Chiesa di S. Emiliano [secondo altri studiosi, dall’interpretazione del cronista sincrono Francesco Mugnoni, ritengono che tali capitelli provengano dal luogo ove sorge la chiesa di S. Martino] quando nel 1465 si prese ad ampliarne ed innalzarne le mura, e quindi fanno credere che nello stesso luogo o poco lungi sorgesse il pagano edificio. Dell’esistenza di esso grandezza e posizione si

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ha pure un'altra prova nella Lezione Bollandistica del 24 gennaio da cui si apprende che quando S. Feliciano, che fu chiamato l’Apostolo dell’Umbria, venne a Trevi (sul fine del II o III secolo) vi trovò un gran Tempio (ingens fanum) dove i Trevani adoravano Diana come loro Dea tutelare e che nel medesimo luogo fu costruita una Chiesa Cristiana ad onore dell’augustissima Triade. Ebbene l’antichissima chiesa della Trinità era appunto quella di cui avvenne l'accennato ampliamento. Essa fu innalzata quando gli Ostrogoti fecero disparire interamente i resti del gentilesimo che l’Imperator Giuliano aveva tentato di far rivivere.

La sua Architettura è simbolica, e le foggie sono dello stile bizantino. I tre absidi formanti un solo corpo che abbracciavano tutto il lato orientale, e la parte più venerata del Sacrario alludono evidentemente al mistero del Dio uno e trino di nostra Fede.

È poi notabile che quando coll’accennato ampliamento questo bello e raro mistico edificio rimase in una parte angolare e secondaria si volle innalzare appositamente un ben adorno Sacello in capo alla nuova Chiesa per conservare la primitiva invocazione

Nella casa dell'antichissima famiglia Lambardi (oggi Ubaldi) eravi pure un iscrizione riportata nel codice Natalucci che diceva

OLIM . TRIVIAE . TEMPLUM

Quindi non sembra potersi dubitare che il gran Tempio di Diana stasse sulla parte elevata dell'odierno Trevi.

Se era costume degli Umbri di costruirsi a preferenza le loro dimore ne' luoghi più difendibili, e con case vicine sulle alture, se questa era la parte più sicura, più sana, più produttiva, quando la valle era infestata dalle acque e dagli interrimenti, se due delle più antiche Deità d'Italia avevano templi ed altari in quelle posture elevate può ragionevolmente ritenersi per cosa certissima che i primi Trevani abitassero sui nostri clivi su queste medesime vette

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Ma un culto ed assai più rinomato ebbe pure in questa contrada il Fiume Clitunno del cui marmoreo tempio resta fortunatamente in piedi un prezioso avanzo. Anche nella prossima Bovara eravene un altro dedicato a Giove Boario del quale restano altresì le colonne dentro l’attuale Chiesa di S. Pietro [in realtà pilastri cilindrici] e due teste bovine sporgenti sull’alto della facciata: un quinto pure se ne vuole a Giunone, dove oggi si venera la Madonna di Pietrarossa o de pede Trevii.

Queste tre fabbriche stanno sull’estreme digradazioni del monte e sulla riva destra del Clitunno. Quelle di Bovara e Pietrarossa vedute nella pianta parcellare non sono distanti da Trevi neppur due chilometri, anzi vi si possono dire quasi congiunte con gruppi di altre case intermedie; quindi anco li due tempii di Giove e Giunone furono innalzati certamente dai Trevani forse in tempi meno remoti, e quando gli Umbri datisi spontaneamente ai Romani, dopo che videro debellati gli Etruschi loro nemici poterono sotto l’egida di quella invincibile potenza darsi tranquillamente a bonificar le pianure, a dilatare la coltivazione, e l’industria. Frequentissime eran le reciproche invasioni tra Umbri ed Etruschi prima di quest’epoca (Strabone V.) onde non è verosimile che queste due Divinità romane avesser templi, ed i Trevani discendessero verso la pianura prima della vittoria di Q. Fabio Rullano (308 avanti l’era Cristiana.)

Anco il tanto famoso tempio del Clitunno è di epoca romana come indica l’eleganza dell’architettura, l’uso dei più belli marmi, di pietre amatistine, e la squisitezza degli ornati ed intagli, che all’infuori dei timpani sostituiti, son tutti della prima costruzione. Questo monumento che Plinio II. trovò già antico (priscum) che il Palladio volle illustrare, che inspirò le vivaci stanze del Byron, che tutti i viaggiatori vanno ad ammirare, stava nel territorio di Trevi, come l’illustre Presidente delle antichità romane Ridolfino Venuti scrisse, e come vien provato dal documento A annesso a questo scritto e dalla nota relativa. Forse la venerazione per un fiume di acque limpidissime, di una scaturigine pittoresca, di un amenissimo corso apportatore

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 di molti e reali vantaggi precedette la costruzione del tempio stesso; ma poi la scaltrezza profittò della credulità di popoli semplici, e della vergine loro fantasia per attribuire fatidici responsi ad un Nume presente, il prodigio di render candidi i Bovi che bevessero di quell’acqua: coll’evidente scopo di chiamar molti visitatori, aver molte vittime, continue oblazioni. Spogliato però anco del velo soprannaturale di cui l’ornarono i Poeti latini italiani ed esteri il Fiume Clitunno sì limpido, il suo tempio tanto grazioso, i suoi margini straordinariamente ameni, le contermini alture tutte vestite di allegre dimore, una campagna fresca e profumata dalle vitali esalazioni di un rigoglioso alberato, procurano in tutti un immancabile e grande piacere. Plinio II. che ebbe in Roma i primi offizii, fu proconsole e viaggiatore, provò tanto diletto nel visitar questi luoghi che gli dolse di non averlo fatto prima, ed eccita l’amico Romano a recarvisi.

Né solo le accennate cinque moli dimostrano l’antica importanza di Trevi, ma più Sacelli come vide lo scrittore romano erano d’attorno, esisteva un vecchio teatro, un altro si dovette innalzare nel I.° secolo, un circo di fiere par che vi fosse sui primi del III.° quando S. Emiliano fu martirizzato.

Svetonio nella vita di Tiberio scrive che l’Imperatore non volle concedere ai Trevani di trasferire o distornare una somma legata per edificare un nuovo Teatro ai lavori di una Strada piacendogli che fosse rispettata la volontà del testatore. Secondo questo documento esisteva già un Teatro e dovette costruirsene un secondo. Combina infatti colla testimonianza della Storico un iscrizione esistente in un bel piedistallo di marmo greco che sosteneva una Statua.

In questa epigrafe si parla di Scabillarii del Teatro che con danaro raccolto fecero erigere quel monumento di onore a Lucio Succonio personaggio illustre della famiglia Prisca che era Decurione, Consolo, Pontefice, di Trevi. Il buon Abate Giorgetti nel suo opuscolo del 1782 su Trevi, e la Madonna delle Lagrime riportando la iscrizione Succoniana, già pubblicata

 

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dal Fabbretti, dal Marangoni, dal Doni Coletti ecc. Credette che i Scabillarii veteres a scaena fossero i Presidenti Anziani e deputati agli scanni del Teatro. Questa spiegazione fece credere a taluno che Trevi non potesse avere un Teatro di proporzioni così vaste da richiedere che una deputazione agli scanni fosse costituita in decurie; però quando la parola Scabillarii vogliasi spiegare secondo il suo vero significato, e riconoscere in esso un corpo di Musicisti e mimi, che avevano sotto il piede destro uno Strumento a percossa fatto a forma di scabello al di cui suono univasi quello delle tibie ed altri strumenti giocati colle mani, quando riflettasi alla voga che aveva preso questo genere di musica e di trastullo sotto Caligola che volle dilettarsene anch’esso, al carattere sacro che gli si dette fino ad attribuirle il potere di placare lo sdegno dei Numi , come Arnobio ci dice, non può recar meraviglia che alcune decurie di tali persone sollazzassero anche i Trevani in epoche di mollizie e piaceri recata dalla stessa generale prosperità e grandezza del vastissimo impero.

Esistevano lungo il margine del Clitunno ville di piacere; nel tratto sacro del fiume godevasi dell’alterno gioco delle barche ; vi erano secondo il Venuti giuochi Clitunnali, si mandavano da questi pascoli famosi alla gran Roma Bovi di una razza così scelta che vestiti di fiori venivan recati nelle pompe trionfali come maxima victima, aveva Trevi tutte le doti dei Municipii, quindi non può supporsi che gli mancassero i Scabillarii necessarii ai ricordati spettacoli ed all’esercizio delle varie religiose ceremonie.

Benché pubblicata più volte amo di riportare qui l’epigrafe del cippo Succoniano come trovasi scritta in bei caratteri ottimamente conservati con talune osservazioni fatte sul sasso,

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L . SVCCONIO . L . F . PAL

PRISCO . IiiI . VIR . I . D . Q . A .

OMNIUM . CORP . PATR

ITEM . TREBIS . DECVR . PONT

IiiI . VIR . I . D . PATRON . MUN

DECURIAE . IIII . SCABILLAR

VETERES . A . SCAENA

AMANTISSIMO . SVI

EX . AERE . CONLATO . H . A . I . R.

 

Manca sul lato destro, ed in ogni altra parte il nome dei Consoli, ma sembra che il contesto stesso del monumento ne indichi l’epoca; si tratta di tempi in cui tutte le dignità erano concentrate in un unico illustre personaggio, a cui quattro decurie di Scabillarii innalzarono una Statua, quindi non può molto errarsi nel congetturarla.

Nella prima metà della quinta linea la superficie marmorea è stata indubitatamente escavata fino al punto di poter far disparire le cifre scolpite in origine, ed incidere di nuovo nel piano rozzamente abbassato le iniziali delle parole quatuorviro jure dicundo nella stessa precisa forma che trovansi già scritte nella seconda riga. Fra la indicata prima metà corrette della quinta linea e le parole intatte patrono municipii evvi pure una laguna col piano egualmente escavato. Se questa innegabile alterazione sia stata una correzione fatta dal primo ovvero una viziatura posteriore fatta da un altro scalpello non oserei dirlo.

A me sembra che se quel grande della famiglia prisca ebbe in due Città l’autorità quatuorvirale I. D. che nei Municipii corrispondeva alla consolare non sarebbesi omesso di porre il nome della prima, come si legge scolpita la parola Trebis e molto meno posso ammettere al Doni che il cippo sia stato trovato a Terni, e parli di quel Municipio, giacché lo credo un puro equivoco di nome che avviene continuamente fra Terni e Trevi; mentre questo masso che raggiunge l’altezza

 

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di m. 1,20 contro cent. 80 di larghezza nella parte sporgente non sembra verosimile che da Terni sia stato trasportato sulla cima di Montefalco dove nel 1782 il Giorgetti lo vide, e non può essere che se alludeva al Municipio ai Consoli alle corporazioni ai Scabillarii di Terni non vi si leggesse affatto nominata quella città. Il Coletti lo crede trovato in agro Mevaniensi; ma non sembra possibile che i Cittadini dell’antichissima Mevania permettessero che si asportasse a Montefalco un monumento importante. D’altronde è noto che Caligola si recò a consultare l’oracolo del Clitunno, e secondo Svetonio (43) procedette fino a Bevagna: ad visendum nemus flumenque Clitumni Mevaniam processisset.

Da queste parole molti hanno creduto che il bosco sacro, il culto del Clitunno, la Città Lucana stasse presso Bevagna; ma ciò si oppone alla irrefragabile prova dei fatti. Presso Bevagna il Clitunno ebbe in tutti i tempi il nome di Timia. Strabone scrisse Mevania preter quam labitar Tineas et hinc parvulis schafis collectos in agro fructus devehit in Tiberim; immensi sono i documenti posteriori ed anche il Venuti conferma che il Clitunno prende il nome di Timia nel territorio di Bevagna; la stessa parola processisset indica che l’Imperatore procedette fino a Bevagna a vedere l’ameno corso del Fiume ed il bosco sacro che con ogni probabilità doveva estendersi dalla Città Lucana fino a Bevagna, giacché tutte le acque della Valle sembra che andassero col Clitunno nello stesso canale a traverso di boscaglie, prima che fosse formato il gran recipiente Teverone.

Ma se il cippo fosse stato trovato e la Statua eretta in altra Città, maggiore forse sarebbe l’onore per Trevi, giacché tra le dignità di Succonio fu espressa quella di appartenere all’ordine Decurionale di Trevi, di esservi Pontefice, e Quatuorviro.

Altre anticaglie sonosi in varie epoche scoperte in diversi punti del Territorio Trevano.

Fino dal principiare del XVI secolo il dotto e ricco signore Benedetto Valenti ebbe la gloria di esser uno dei primi in Italia (come il Tiraboschi osserva) a raccogliere oggetti antichi e farne una collezione nel suo Palazzo di Trevi che soffrì qualche

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perdita ma fu sagacemente a nostri giorni riordinata dal Sig. Conte Filippo di tal nobile prosapia. Alcuni oggetti di questa raccolta furono indubitatamente trovati lungo le rive del Clitunno presso Bovara, ed appartennero come scrisse il Venuti ai Sacelli che circondavano il Tempio. Cippi iscrizioni e teste antiche si riunirono con ottimo divisamento, e si vanno con diligente cura radunando nel palazzo comunale: qualche reliquia rimane ancora in mano dei privati, come non pochi frammenti di marmo scolpito sono stati sconsigliatamente adoperati nei fabbricati posteriori. Presso la Chiesa di Pietra rossa sotto l’interrimento di circa tre metri, si discopersero lunghi ruderi di antiche mura, pavimenti a grandi lastre, scalinate, e basi di colonne, grandi massi, tegole antiche, ossa, carboni. Nel 1751 si videro tre grosse basi di colonne: e frammenti ad ogni scavo si trovano.

Anco nello scorso autunno 1864 in occasione dei lavori per la Ferrovia si scoprì un pavimento formato da piccolissimi mattoni murati a coltello, un muro in cui stava incassata una lapide evidentemente romana che il Liberto Filemo fece innalzare a Cajo Lafrenio della Tribù offentina, un pezzo di cornice avente nella faccia intagliata la riguardevole altezza di quasi 30 centimetri senza le parti che mancano. Essa dovette appartenere a cospicuo edificio per essere in marmo statuario di grossezza rimarcabile, ricca di ornati, disegnata con gusto e scolpita diligentemente anco con trafori.

Queste ultime scoperte, delle quali è certissimo il luogo, confermano la verità di quanto leggesi nel codice Natalucci sugli scavi dello scorso secolo, ed aggiungono fede alla tradizione, ed ai documenti, che dicono avere esistito sulla riva destra del Clitunno nella plaga detta di Pietra rossa una antica Città romana distinta col nome di Lucana Trebiensis, la quale secondo le cronache Gualdensi fu esterminata fin dai tempi di Valente e Giuliano (361 – 378) Tempore Jualiani Apostatae et Valentis Imperatorum fuit exterminata Lucana Treviensis.

Fù essa Città d’importanza? Qual periodo ebbe di vita?

Se riguardasi la estenzione dei ruderi scoperti nel 1745 la

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grandezza delle tre basi di colonne vedute nel 1731, le grandi lastre di pavimento e di scalinate, se voglia credersi col Giorgetti che nei portici della Chiesa di Pietra rossa si conservassero varie antiche lapidi, ed all' opinione che dentro gl' informi sproporzionati pilastri possano essere state murate le antiche colonne del tempio di Giunone, se a questa fabbrica vogliasi attribuire la bella cornice di marmo scavato nel 1861 ed anco la pietra di color rosso porfido perforata nel mezzo in cui leggevansi cifre enigmatiche, e che ebbe tanto pregio da esser conservata, e dare il nome alia contrada, può anche da questi pochi avanzi congetturarsi che considerevole fosse il tempio, rilevante il numero dei fabbricati, estesa la loro periferia tanto che saliva anche sopra la Flaminia, giacché il lungo muro scoperto nella metà dello scorso secolo stava nel terreno allora spettante al D. Emiliano Parriani.

Non sembra che tali edifizii possano risalire al di la della dominazione romana, come già si accenno, e che abbiano durato oltre alla meta del IV Secolo; ma qualunque giudizio su questo riguardo sarebbe troppo arrischiato nella mancanza di documenti sicuri.

Fu questa la vera Citta di Trevi in antico, dal di cui abbandono venne poi il Castello di Trevi che dilatato più volte formò poi l'odierna Citta? Alcuni lo scrissero e molti lo ripeterono. A me sembra che non possa essere.

Si e veduto che sulla fine del II o principio del III Secolo avevano ancora i Trevani il Tempio della loro Diva tutelare sul vertice del colle: che all’epoca di Virgilio e di Plinio II era nel suo apogeo il culto del Clitunno, ed il commercio dei celebrati candidi Bovi, Nell'attual villaggio di Bovara surse una mole assai grande sacra a Giove, come l'altezza delle colonne rimaste che vanno anche sotterra addimostra. Sembra quindi più verosimile che anche in questa epoca della maggior prosperità e grandezza rimanesse ancora nella primitiva ed elevata Trevi il nucleo della popolazione col tempio della loro Diva tutelare, e con quello remotissimo di Giano, e che da questo centro si distendesse la popolazione alle due equidistanti contrade di Pietrarossa e Bovara piuttostoche supporre che formassero la vera

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e principale Città i fabbricati di Pietra rossa col tempio di Giunone distante da Bovara cinque chilometri, e dal tempio del Clitunno e parte sacra del Fiume sette.

Ma questi sono argomenti di probalità e presunzione che non possono indurre di certo un convincimento a fronte dei ruderi esistenti e delle opinioni ripetute di successivi scrittori.

Sunt qui velint hanc Trebiam appellatam aliquando fuisse Lucanam Treviensem ejusqne desolata rudera conspici 300 circiter passibus ab existenti Treviensi castro distita ( Coleti Tom. X. fog. 175)

Sembra al mio piccolo intentimento che la stessa parola Lucana Trebiensis o Treviensis indichi e supponga un altro luogo da cui siale derivato questo appellativo, come il Castrum Treviensis porta alia medesima induzione. Ma qual era questo nome da cui, e la Città bassa ed il castello trassero il loro appellativo? Molti credono Trebia, alcuni Trivium, altri Trebula; sembra che il cippo Succoniano possa togliere ogni dubbio. In esso leggesi chiarissimamente Item Trebis Decurioni Pontifici; se la parola Trebis, non e che un ablativo plurale locativo di Trebii-orum o Trebiae-arujn sembra tutto spiegato e può accordarsi ogni opinione ogni documento. Plinio nel suo Libro di Geografia non da un nome particolare di Città, ma nomina i Trebiates, Plinio II che percorse tutto il tratto del Clitunno, mentre parla delle ville di piacere che sorgevano lungo i margini del Fiume, e del bagno che il Divo Augusto aveva concesso ai Spellani, non fa cenno di una Città speciale bagnata dalle famose acque, Arnobio parla degli  Dei Trebani, il frammento di lapide citato dal Marangoni parla della repubblica Trebianorum Svetonio nella vita di Tiberio dice Trebianis, nell'Itinerario gerosolimitano si usò pure l’espressione di caso plurale locativo come nel piedestallo Trebis: con questa stessa parola lo scoliaste di Giovenale indica la Città chs il Clitunno bagnava.

« Clitumnus Fluvius qui Trevis Civitatem Flarainiae interluit ( alia exemplaria interfluit ) »

Sembra quindi che tutto coincida a provare che i Trevani avessero un nome collettivo e che dalle originarie posizioni elevate

 

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scendessero e si dilatassero a misura della crescente prosperità e sicurezza nelle parti, inferiori.

A sostegno di questa opinione sta pure l’autorità di molti dotti scrittori. II Lucenzio nell’Italia sacra f. 1524 scrive «Trebia unde Trebiates Umbriae populi apud Plininm celebres Civitas in colle sita inter Spoletum et Fulgineum populo frequens et familiis nobiliiate claris». II Coleti nella nuova impressione dell'Italia sacra, dell'Ughellio Tom. X. f. 175 Castrum in Umbria vulgo Trevi inter Fulgineum et Spoletum in edito colle situm urbs olim fuit non ignobilis Trebia dicta a qua Trebiates Umlriae populi apud. Plimum, celebres.

Bandran nel Lexicon geogr, Trebia quoque urbs Umbriae de qua mox Trebiates Trebiani Ausonio populi Umbriae quorum Urbs Trebia in libris conciliorum et ex Arnobio, episcopalis olim in colle inter Fulgineum sex et Spoletum novem millia passus. II Bollandio 28 Jan. Tomo II. foglio 833. Trebia urbs est Umbria; qua; nunc vnlgo, Trevi inter Spoletium et Fiilgineum in edito colle sita haud procul ab amne Clitumno. II Cellario nelle Notjzje del mondo antico, Lipsia Lib. 2. cap. 9 fog. 749 Civitas Trevis Trebia unde Plinii Trebiates in Hierosolimilano Trevis idest Trebis hodie Trevi in colle inter Fulgineum et Spoletum.

Molti altri, latini scrittori ed italiani potrei citare che hanno creduto la Trevi, odierna essere stata la medesima Città vescovile della quale si parla nei libri dei Concilii; ma di ciò mi propongo trattare in un secondo studio relativo alia nuova era che la Fede Cristiana fece sorgere anche per Trevi tra il sangue dei martiri e la ferocia dei persecutori, la fermezza dei nuovi fedeli e l'incredulità che rodeva il paganesimo, le splendide virtù ed abnegazioni dei neofiti, ed i vizi le lascivie dei corrotti pagani..

Intanto unisco quattro documenti già pubblicati tanto perché dal primo risulta che Pissignano appartenne a Trevi, come nella nota si dimostra, quanto per correggere i molti errori occorsi  nella prima stampa, sia per la difficoltà d'interpretare gli originali, sia per la fretta con cui fu eseguita la edizione.

 

 

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